COLOMBIA: RIVINCE SANTOS. UOMO DI GUERRA, NEL NOME DELLA PACE
Tratto da: Adista Notizie n° 24 del 28/06/2014
37708. BOGOTÁ-ADISTA. Per molti militanti della sinistra colombiana, votare per la riconferma di Juan Manuel Santos alla presidenza del Paese è stato qualcosa di più che turarsi il naso: il loro voto, al ballottaggio del 15 giugno, non è stato per lui; è stato - decisamente - malgrado lui. Un voto, si è detto, a favore della pace, un voto per dare una possibilità alla pace, ai quei negoziati tra governo e Farc che, partiti ufficialmente il 18 ottobre 2012 a Oslo e poi trasferitisi all’Avana (v. Adista Notizie, n. 33/12 e 41/13 e Adista Documenti n. 22/13), hanno raggiunto, proprio poco prima dell’appuntamento elettorale (e di certo anche in funzione di questo), un nuovo parziale traguardo: dopo l’accordo del maggio 2013 sul primo punto in agenda relativamente a una “Riforma rurale integrale”, e quello del novembre dello stesso anno sul tema della partecipazione della guerriglia alla vita politica, i delegati del governo di Juan Manuel Santos e quelli delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia hanno annunciato il 16 maggio di aver trovato un’intesa anche sul terzo dei cinque punti previsti, quello sul narcotraffico e le coltivazioni illecite (voltando le spalle alla politica militarista finora seguita nella lotta alle droghe e puntando, al contrario, allo sradicamento delle coltivazioni illecite «a partire da un processo di programmazione partecipativa con le comunità coinvolte»). Intesa seguita dall’annuncio, stavolta poco prima del ballottaggio (e di certo anche in funzione di questo), dell’avvio di negoziati di pace anche con l’altro gruppo guerrigliero, l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale).
Tra destra ed estrema destra
Di nuovo Santos, dunque: riconfermato alla guida della Colombia con il 51% dei voti, quattro milioni e mezzo di voti in più che al primo turno del 25 maggio (quando è finito secondo con circa il 25,6%). E di nuovo Santos per due ragioni: per aver dato avvio ai negoziati con le Farc e, soprattutto, per non essere Oscar Zuluaga (il candidato del Centro Democratico, vincitore del primo turno con il 29,2% dei voti), ovverosia l’alter ego di Álvaro Uribe, l’ex presidente macchiatosi, nei suoi otto anni alla guida del Paese (2002-2010), di corruzione e violazioni dei diritti umani, nonché convinto sostenitore della necessità di porre fine alla guerra attraverso l’annientamento militare della guerriglia (sulla base della cosiddetta dottrina della sicurezza democratica, finanziata con i dollari del Plan Colombia). E uscito tutt’altro che sconfitto dalla competizione elettorale, essendosi l’uribismo affermato come la forza politica più importante del Paese.
Perché altri meriti Santos non ne ha, né per il suo passato di ministro della Difesa del secondo governo Uribe – nelle cui vesti, solo per citare due episodi, ha ordinato il bombardamento di un accampamento delle Farc in territorio ecuadoriano, scatenando una gravissima crisi diplomatica con Ecuador e Venezuela (v. Adista n. 21/08), e disposto l’assassinio del comandante in capo delle Farc Alfonso Cano proprio nel momento in cui quest’ultimo esprimeva la sua disponibilità rispetto a un possibile percorso di dialogo (v. Adista n. 94/11) - né per il suo presente di custode del più puro pensiero neoliberista, legato a doppia mandata agli interessi degli Stati Uniti nella regione.
Solo per la pace
Di nuovo Santos, ma, stavolta, grazie anche ai voti decisivi di una parte della sinistra (rappresentata al primo turno da Clara López, alla guida di un’alleanza tra il Polo Democrático e l’Unión Patriótica, giunta quarta con un tutt’altro che trascurabile 15,2%), e di una parte, sebbene minoritaria, di quella grande maggioranza della popolazione che aveva optato al primo turno per l’astensione (calata da uno stratosferico 60% a un comunque altissimo 52%, a cui va aggiunto per di più un 4% dei voti in bianco). “Solo per la pace, voto Santos”, è stato lo slogan che ha segnato la nascita del Frente Amplio por la Paz, iniziativa che raccoglie diverse forze e personalità della sinistra con l’obiettivo di proteggere i negoziati in corso.
Perché c’è anche questa, di divisione, nel Paese: non solo quella tra chi vuole la pace e chi vuole la guerra, non solo quella tra chi punta appena alla cessazione delle ostilità e chi ritiene che la pace servirà a poco se non sarà accompagnata dalla giustizia sociale, ma anche, come nota Héctor Alfonso Torres Rojas (Alai, 16/6), quella tra chi ha votato, pensando che un male minore sia preferibile a un male più grande, e chi non ha votato, convinto della totale inutilità dell’atto (non riponendo peraltro la minima fiducia sulle intenzioni di pace di Santos, anche solo considerando la sua ostinazione nell’escludere la possibilità di un cessate il fuoco prima della firma di un accordo di pace). Convinto anzi che, con il suo voto, la sinistra non abbia fatto altro che, come ritiene José Antonio Gutiérrez D. (Rebelión, 17/6), aiutare a «ripulire l’immagine di Santos dinanzi all’opinione pubblica», dissociandola «dal bombardamento in territorio ecuadoriano, dalla sua catastrofica gestione sociale anti-popolare (…), da tutti gli inganni e le promesse non mantenute nei confronti del popolo contadino, dai trattati di libero commercio, dall’impunità militare, dalla legge di sicurezza cittadina e dalla criminazzazione della protesta». Facendo così di lui, prosegue, «l’unico presidente di destra al mondo», coinvolto «in violazioni dei diritti umani e crimini di lesa umanità», che «ha ricevuto un appoggio elettorale importante da parte della sinistra», la quale ha dimostrato così, conclude, la sua «incapacità di canalizzare lo scontento popolare in un programma di lotta».
Resta, in ogni caso, una domanda chiave: in base all’esito del ballottaggio, quello di una vittoria ottenuta anche con i voti decisivi della sinistra in nome della continuità del dialogo di pace, il presidente, che su questo ha puntato durante tutta la campagna elettorale, si sentirà vincolato all’obbligo di condurre i negoziati con la guerriglia al successo, come ritengono quanti lo hanno votato, o al contrario, come credono coloro che hanno optato per l’astensione, preferirà scendere a patti con l’“opposizione ufficiale”, quella di Zuluaga/Uribe, respingendo il principio della “pace a tutti i costi” o, tutt’al più, perseguendo “una pace con ingiustizia sociale”?
E resta, per la sinistra, la madre di tutte le questioni: come scriveva José Antonio Gutiérrez D. (Rebelión, 30/5) prima del ballottaggio, «le conquiste popolari, che sia la pace o qualsiasi altra cosa, bisogna saperle difendere in strada, perché le urne non saranno mai una difesa efficace. Solamente così – conclude – riusciremo realmente a conquistare il cuore di questo 60% del Paese che guarda le elezioni da lontano». Tanto più che in strada i movimenti colombiani hanno già dato una grande dimostrazione di forza con l’enorme mobilitazione dell’agosto del 2013, promossa dai contadini insieme ai camionisti, ai minatori e a un ampio ventaglio di produttori di alimenti condotti alla rovina dal Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti.
Nulla di tutto questo, però, sembra riguardare la Chiesa gerarchica: nessun vero contributo, nessuna autentica denuncia, sono giunti, sottolinea Héctor Alfonso Torres Rojas, dalle gerarchie ecclesiastiche, le quali hanno «mantenuto un silenzio quasi assoluto sulla prostituzione della politica, sul sistema di corruzione imposto al Paese, sui molteplici casi di corruzione concreti», ben attente a non entrare nel merito dei problemi reali della vita pubblica per restarsene nell’assai più confortevole piano dei «principi astratti». Ed è quanto rileva anche il teologo argentino Eduardo de la Serna (www.amerindiaenlared.org), evidenziando la mancanza di parole chiare e forti in difesa della vita da parte dei vescovi, evidentemente paghi della posizione anti-abortista di Zuluaga: «Curioso. Pare che, per alcuni rappresentanti pro-vita della Chiesa, la guerra, il conflitto, la morte non attentino contro la vita». (claudia fanti)
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