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La sinistra, il senso comune e il cristianesimo

Tratto da: Adista Documenti n° 25 del 05/07/2014

(…). Vorrei richiamare l’attenzione su due peculiarità della congiuntura politica in cui ci troviamo. Si tratta di un momento critico alquanto particolare, in cui, da un lato, sembrerebbe tutto più difficile che mai e, dall’altro, tutto più facile di quanto sia mai stato.

Cominciamo dalla difficoltà. È tutto più difficile perché, dagli anni ’80 - e ancor di più oggi con la crisi economica - i più ricchi e potenti del pianeta sono passati all’offensiva e hanno intrapreso una rivoluzione. Sì, ora i rivoluzionari sono loro: sono loro quelli disposti a sopprimere tutte le istituzioni a sostegno di una vita umana decente e dignitosa. Neppure il nichilismo anarchico più radicale si era spinto così lontano. Allo scopo di salvare gli interessi di un capitalismo finanziario da casinò, sono disposti a trasformare questo pianeta in un deserto, a far morire di fame la metà della popolazione mondiale speculando sul mercato degli alimenti di base, a demolire ogni singola conquista realizzata dalle lotte rivoluzionarie di due secoli all’interno di quello che si chiama Stato di Diritto (che non è qualcosa che ci abbiano regalato, bensì qualcosa che è senza dubbio molto precario e molto imperfetto, ma che è stato strappato ai potenti con molta lotta, molto sangue e molti morti). Insomma, la rivoluzione dei ricchi contro i poveri sta minacciando tutto ciò che potremmo chiamare “civiltà”. E tutto risulta pertanto assai difficile, perché - come diceva il magnate Warren Buffet - questi selvaggi rivoluzionari stanno vincendo e potremmo dire che stanno vincendo per goleada.

Tuttavia, al tempo stesso, tutto è più facile che mai. E questa è la nostra grande occasione. Perché ora che i rivoluzionari suicidi, nichilisti e selvaggi sono loro, ora che sono loro i terroristi, noi possiamo cominciare a difendere cose di profondo buon senso. (...).

Di più: nella situazione rivoluzionaria in cui ci troviamo, possiamo persino prenderci il lusso di diventare conservatori. L’essere umano non può ribellarsi se non è conservatore, diceva Chesterton, perlomeno «abbastanza conservatore da aver conservato qualche ragione per ribellarsi». Cambiare è sempre un rischio e i cambiamenti rivoluzionari sono, per la maggior parte della gente, un rischio troppo grande. Per questo la sinistra ha sempre avuto molta difficoltà a estendere la sua egemonia tra la popolazione. Ma ora che i rivoluzionari sono i più ricchi e potenti, la sinistra può benissimo permettersi di lavorare per il senso comune. Vale la pena conservare la scuola pubblica, la sanità pubblica, il diritto a una pensione, a una casa, a un lavoro. Possiamo, prima di tutto, insistere sul fatto che vi sono cose in questo mondo assai meritevoli di essere conservate. Per esempio, c’è una cosa che bisogna conservare a qualunque costo, una cosa talmente importante da valere più della stessa vita: la dignità. Perché senza dignità non vale la pena vivere. Gli esseri umani non vogliono conservare la vita a qualunque prezzo. Al di sopra della vita, vogliono, prima di tutto, conservare quello che rende la vita degna di essere vissuta. (…).

Questo deve farci ricordare che noi di sinistra (…) siamo sempre, prima di tutto, lottatori per un ordine politico della dignità: ciò che la filosofia ha definito come ordine repubblicano, in cui gli individui siano liberi, uguali e fratelli. Vale a dire, cittadini indipendenti che non debbano chiedere permesso a nessuno per esistere con dignità. Beninteso, per rispondere a quest’ultimo requisito – che è precisamente quello che esigeva l’idea di fraternità, giacché si trattava di non dipendere più da alcun tipo di “padre”, “padrone” o “signore” –, si richiedono condizioni materiali di esistenza, proprio quelle condizioni materiali che il capitalismo ha distrutto e reso impossibili, espropriando la popolazione dei suoi mezzi di produzione. Ne deriva che, a giudizio di alcuni, qualunque progetto politicamente repubblicano sia inevitabilmente destinato a essere anticapitalista. E allora, in effetti, la radicalità dei mezzi contrasta con il possibile carattere moderato degli obiettivi. Siamo antisistema per salvare un sistema, il sistema repubblicano del senso comune politico più elementare. Siamo anticapitalisti radicali per poter essere conservatori e riformisti. (…).

Le potenzialità di questa “nuova alleanza” della sinistra con il senso comune sono immense. Tra altre cose, perché ciò permette di riconsiderare un dialogo che ho sempre ritenuto fondamentale: il dialogo con il cristianesimo e, soprattutto, con il cattolicesimo. È incredibile il modo in cui la sinistra ha ceduto sempre le sue migliori armi al nemico. Io e Luis Alegre abbiamo sempre posto con forza l’accento su questo punto. Il più grande errore del marxismo è stato quello di insistere sul fatto che il diritto, il senso di cittadinanza, la divisione dei poteri, il parlamentarismo, ecc., tutta l’intelaiatura, insomma, di quello che chiamiamo Stato Moderno, non fosse che l’altra faccia della moneta di quello che si intendeva combattere: il capitalismo. Tutta la costellazione politica e concettuale del progetto repubblicano si è trasformata in una realtà sovrastrutturale necessariamente legata al pensiero borghese o piccolo-borghese. Un grosso errore: in questo modo, si cedeva al nemico il corpo concettuale politicamente più irrinunciabile della storia dell’umanità (…). Non mi interessa ora commentare (...) il disastro politico in cui si traduce sempre questo esperimento. Il diritto è l’unica scala che ha inventato l’essere umano per elevarsi al di sopra della religione. Se si pretende muovere un passo oltre, salendo di un gradino al di sopra del diritto, si finisce con il naso a terra. Il culto della personalità, una nuova religione artificiale, è stato l’inevitabile risultato.


UNA RAGIONE MITOLOGICA

Ebbene, tra gli incredibili patrimoni che la sinistra ha regalato tanto allegremente al nemico, se ne distingue, soprattutto, uno molto speciale: il cristianesimo. Dinanzi all’invenzione di una religione puramente volontaristica e artificiale, ci si chiede se non sarebbe stata più sensata un’alleanza seria con una religione autentica. Il diritto è razionale, ma non mobilita la gente. La religione è forse irrazionale, ma è capace di spostare le montagne. Questo dilemma è stato posto, già nel 1795, dai giovani Hegel, Schelling e Hölderlin, nel famoso testo congiunto noto come “Programma”. Se la ragione non ha un carattere mitologico non avrà alcun interesse per il popolo. Se la mitologia non è razionale, il filosofo se ne dovrà vergognare. Abbiamo bisogno – dicevano – di una “mitologia della ragione” o di una “ragione mitologica”. Senza dubbio, questo “programma” politico può essere interpretato in modi assai diversi e non mi soffermerò sui tanti pericoli che comporta. In ogni caso, questa diagnosi risponde alla realtà: il popolo si mobilita in virtù non di ragionamenti, ma di miti. La destra, dunque, ha dovuto sfregarsi le mani soddisfatta vedendo che la sinistra le cedeva tanto allegramente l’arma più potente che fosse mai stata inventata per mobilitare la popolazione. Si poteva essere di destra e conservare la propria religione. Alla sinistra si chiedeva, invece, la cosa più difficile: mobilitare la gente a partire dall’ateismo.

La cosa risulta ancora più insensata se si pensa concretamente al cristianesimo, che è una religione che, in fin dei conti, risultava compatibile tanto con la sinistra quanto con l’Illuminismo in generale. Dopotutto, il fatto che Gesù fosse definito come il “logos fatto carne” poteva già essere letto come un patto originario con qualsiasi forma di Illuminismo. Non è solo il fatto che la figura di Gesù nei vangeli risulti piuttosto in linea con il pensiero di sinistra. La questione è che Gesù, riassumendo tutti i comandamenti nell’“amerai il prossimo come te stesso”, risponde in pieno a quella che potremmo considerare una versione mitologica della stessa forma della ragione. (…). La Verità mi obbliga a riconoscere che quello che sto dicendo lo direi ugualmente se fossi un altro, in quanto il teorema di Pitagora non è diverso per gli schiavi da quello che è per i cittadini, non è diverso per i greci da quello che è per i persiani. La Giustizia mi obbliga a riconoscere che quello che intendo fare lo farei ugualmente se fossi un altro, poiché non lo faccio in quanto ricco o povero, uomo o donna, spartano, ateniese o persiano, ma perché è giusto. Di fronte alla Bellezza, sento di provare lo stesso che l’altro, che qualsiasi altro. Per questo non ci limitiamo a dire che ci piace, ma affermiamo con incredibile audacia che “è bello”, parlando così, non di noi, ma della cosa stessa. Verità, Giustizia e Bellezza ci pongono al posto di qualsiasi altro. Dinanzi alla Verità sappiamo di essere uguali, perché non possiamo evitare che uno schiavo deduca il teorema di Pitagora esattamente come noi. Dinanzi alla Giustizia sappiamo di essere liberi, perché sappiamo che il nostro atto non è un mero effetto delle circostanze, né si limita a dipendere dal fatto di essere ricchi o poveri, uomini o donne, greci o persiani. Un atto che non dipende da nulla è, precisamente, un atto libero. Dinanzi alla Bellezza ci sentiamo fratelli, perché sentiamo di provare lo stesso che prova l’altro, come quando facciamo l’amore e non sappiamo se sentiamo nel nostro corpo o in quello dell’altro. (…). Non è facile sapere cosa sia la ragione. Sarà, in ogni caso, quel luogo a partire dal quale si vedono le cose alla luce della Verità, della Giustizia e della Bellezza. (…).

Possiamo parlare, agire e sentire dal luogo di qualsiasi altro. Questa è l’origine dell’impulso di qualunque possibile Illuminismo dell’umanità. E, conseguentemente, di qualsiasi programma politico che lotti per quest’ordine politico irrinunciabile – che chiamiamo repubblica – in cui chi è destinatario delle leggi è al tempo stesso il legislatore.

È necessario riconoscere che il cristianesimo ci aveva predisposto le cose in maniera piuttosto facile per dotare di carne e sangue questo progetto. Delineando un’incarnazione nel “luogo di qualsiasi altro” sotto il segno dell’amore, si può dire che il cristianesimo prestasse alla ragione tutta l’energia della religione. C’è sempre stato chi lo ha inteso così, naturalmente. Ma senza vincere la battaglia all’interno della gerarchia cattolica. Ci sono stati anche marxisti che lo hanno visto con chiarezza già nel XX secolo. Oltretutto, è esistita ed esiste una cosa che si chiama Teologia della Liberazione. La prova migliore che qui fosse in gioco qualcosa di molto importante fu che la CIA fu obbligata a destinare risorse incommensurabili al finanziamento e al rafforzamento dell’evangelismo, in un tentativo disperato – che alla fine, purtroppo, è stato coronato da successo – di arrestare lo sviluppo impressionante della cosiddetta “Chiesa dei poveri”. Anche la stessa gerarchia della Chiesa cattolica – alleata con i poteri finanziari mondiali – fu costretta a mettere mano all’opera di sradicamento di questo seme di cristianesimo così impegnato politicamente. Papa Wojtyla e il futuro Benedetto XVI (il cardinale Ratzinger) furono implacabili in questa crociata “antimarxista” (o, si potrebbe dire, forse, semplicemente “anticristiana”, perché anche i cammini dell’Anticristo sono imperscrutabili).

Ciò non significa, naturalmente, che la sinistra avrebbe dovuto stabilire un’alleanza con le alte gerarchie cattoliche. Ma significa che non avrebbe dovuto trascurare questo campo di battaglia. (…). È stato insensato aver regalato al nemico la maggiore organizzazione di massa della storia dell’umanità occidentale. (…).

La sinistra non deve chiedere l’impossibile, come recitava il famoso slogan del maggio del ‘68. Ciò che è impossibile è che si possa continuare a sopportare questo mondo assurdo e criminale, in cui, per esempio, si sgomberano famiglie dalle loro case nel momento stesso in cui si mantengono milioni di case vuote. Ciò che è impossibile da sopportare è vivere in un mondo in cui il capitale finanziario può speculare sui prezzi degli alimenti – come prima speculava sulla casa – creando una bolla che ridurrà alla fame milioni di famiglie. Ciò che è impossibile, anche, è che l’equilibrio ecologico di questo pianeta possa resistere a un ritmo di crescita come quello richiesto dal capitalismo. Di fronte all’utopia suicida del capitalismo, quello che bisogna rivendicare è un po’ di buon senso. È sufficiente, in effetti, mettere sul tavolo la Dichiarazione dei diritti umani e chiedere con sufficiente energia le condizioni materiali necessarie per compierla. Sono i capitalisti e i loro spadaccini a chiedere oggi la Luna, non noi.


UN MONDO A MISURA DELLA FINITEZZA UMANA

In realtà, lo slogan dell’“immaginazione al potere” significa oggi il contrario di ciò che si intendeva nel ‘68. Possiamo fermarci un momento a riflettere sulla questione ricorrendo al concetto di “dislivello prometeico” di Gunther Anders. Questo grande filosofo utilizzò questa espressione, “dislivello prometeico”, per esprimere l’enorme sproporzione oggi esistente tra ciò che possiamo fare tecnicamente e ciò che siamo capaci di immaginare e di vivere emotivamente. Questa sproporzione è già così grande che tra la nostra volontà e i nostri atti si apre un abisso senza fondo. Parafrasando Anders, oggi è impossibile sapere quello che stai facendo quando fai quello che fai. Che chiamare al cellulare abbia una qualche oscura e misteriosa relazione con il traffico di coltan in Centrafrica e con una guerra genocida che ha provocato più di dieci milioni di morti, significa pensare a una serie causale che l’immaginazione umana, semplicemente, è incapace di seguire. Nelle parole di Anders, in queste condizioni, è come se l’essere umano si fosse trasformato in un analfabeta emotivo. L’immaginazione è incapace di farsi carico di ciò che mette in gioco la complessità tecnica del mondo. Tale problema è naturalmente anche ciò che è veramente in gioco nella tematica arendtiana della “banalità del male”. (…). Si tratta, in realtà, di una riformulazione sorprendente e inattesa del famoso slogan sessantottino dell’“immaginazione al potere”. Se bisogna dare il potere all’immaginazione non è, in questo senso, attraverso ciò che questa facoltà possiede di debordante e illimitata creatività, ma, piuttosto, per l’esatto contrario: perché la sua ostinata limitazione, la sua meschina finitezza, corrisponde politicamente assai bene ai limiti della condizione umana che ci proponiamo di preservare. Di fronte a un mondo straripante in cui, come direbbe Lacan, “tutto è possibile”, l’immaginazione umana deve essere un’àncora e una forza di inerzia: la possibilità di un mondo a misura della finitezza dell’essere umano. “Non fare nulla che travalichi i limiti di quello che la tua immaginazione è capace di concepire” è la stessa cosa che impegnarsi per un mondo che sia fatto a misura di questo essere raffazzonato, finito e modesto che è, come corroborato da tutti i lavori etnografici, l’essere umano.

Meglio ancora di Gunther Anders o di Hannah Arendt, io direi che è la Teologia della Liberazione che ha centrato pienamente il punto creando il concetto di “peccato strutturale”. Viviamo in un mondo in cui le strutture uccidono con molta maggiore efficacia e crudeltà delle persone. È assurdo, pertanto, porre l’accento sulla malvagità o sul peccato come una questione esclusivamente personale. Per quanto sia diventato complesso in questo mondo distinguere il bene dal male, c’è una cosa che sicuramente è male: il fatto stesso che esista un mondo così. Se viviamo in un mondo in cui “è impossibile sapere cos’è che realmente stai facendo quando fai quello che fai”, allora viviamo in un mondo molto cattivo. Lo slogan dei movimenti altermondialisti – “un altro mondo è possibile”, “un altro mondo deve essere possibile” – diventa allora un imperativo etico ineludibile. È insopportabile vivere in un mondo in cui è sufficiente mettere i propri risparmi in un fondo pensioni per doversi chiedere a quante ignominie e stragi si sta collaborando senza saperlo.

GENOCIDIO STRUTTURALE

Come ho già rilevato altre volte, credo che il concetto più interessante elaborato nella riflessione etica e morale del XX secolo sia stato il concetto di “peccato strutturale”. Bisogna ricordare che, mentre un bel gruppo di preti e di suore metteva a repentaglio la propria vita lottando contro dittature terribili e cercando di cambiare questo mondo ingiusto, la filosofia accademica cercava di decifrare Derrida o girava intorno all’insondabile mistero chiamato il “dilemma del prigioniero”, che suona più o meno in questi termini: se tutti si comportano come delinquenti, il risultato non è il migliore possibile. La Teologia della Liberazione, invece, ha affrontato un problema di massima importanza: in questo mondo le strutture sono peggiori delle persone. Per quanto male si impegni a fare un individuo, risulterà sempre un patetico Fu-Man-Chu (un personaggio malvagio immaginario, di origine manciù, inizialmente apparso in una serie di romanzi dello scrittore britannico Sax Rohmer ai primi del Novecento, ndt) in confronto al quotidiano e abituale genocidio strutturale della globalizzazione. Quando le strutture sono immorali, la questione morale riguarda la responsabilità che abbiamo rispetto alle strutture. In un mondo in cui le strutture violano i comandamenti con un’efficacia colossale e ininterrotta, è immorale limitarsi a rispettare i comandamenti… e le strutture. Lo riassumevo così nell’articolo “I dieci comandamenti del XXI secolo” (2008): «La vera questione morale ha a che vedere con la responsabilità che abbiamo nel fatto che determinate strutture perdurino e con ciò che possiamo fare per sostituirle con altre. È ovvio che questo passa per l’azione politica organizzata e non per il volontarismo morale che cerca inutilmente di prendere le distanze dagli ingranaggi del sistema. Non è evitando di muovere le pedine o muovendole il meno possibile che si riesce a smettere di giocare a scacchi. Per non giocare più a schiacchi e iniziare a giocare al parchis bisogna cambiare la scacchiera. Altrimenti, l’unica cosa che si otterrebbe è perdere la partita, e la partita di scacchi, non di parchis. Non so se è chiaro il messaggio: viviamo in un mondo così immorale da non avere soluzioni morali, ma solo soluzioni politiche ed economiche profondamente radicali. E l’unica questione morale rilevante che è ancora sul tavolo riguarda ciò che avremmo l’obbligo di fare politicamente affinché il mondo smetta di giocare su questa scacchiera economica genocida. La questione non è se posso chiamare o meno al cellulare per partecipare il meno possibile alla strage centroafricana provocata dal traffico di coltan. La questione è come e in che modo attaccare i centri di potere che la generano. La mia responsabilità nella strage non è quella di chiamare al cellulare. La mia responsabilità è quella di accettare di vivere in un mondo in cui chiamare al cellulare ha a che vedere con non so quali guerre nel continente africano. È il mondo che è intollerabile, non noi. Ma, sì, è intollerabile che si accetti a braccia conserte un mondo intollerabile».

Credo che la sinistra anticapitalista avrebbe dovuto prendere molto sul serio questa preziosa opportunità che le si presentava dalle file del cristianesimo. Perché quello che le veniva offerto su un vassoio d’argento non era solo il concetto più interessante della riflessione etica del XX secolo. Le si stava offrendo la possibilità di una mobilitazione di massa in grado di fondere l’energia popolare del cristianesimo con un discorso politico di opposizione nei confronti delle strutture più profonde del capitalismo. (…).

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