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L’America Latina tra il buen vivir e l’estrattivismo. Luci e ombre del processo boliviano

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 19/07/2014

DOC-2638. ROMA-ADISTA. Ridimensionate le aspirazioni al socialismo del XXI secolo, la politica dei governi progressisti latinoamericani si è assestata in maniera chiara su posizioni meno antisistemiche. La spinta propulsiva verso quell’altro mondo possibile su cui tanto ponevano l’accento i Forum sociali mondiali sembra, insomma, essersi arrestata: più che una società ecosocialista, più che il modello del Buen Vivir, le sinistre al potere, al di là di un innegabile dispiegarsi di programmi sociali variamente declinati in termini di inclusione o di assistenzialismo, hanno prodotto, piuttosto, un ampliamento dell’estrattivismo, come viene chiamato il modello – dilagante in America Latina – centrato sulla produzione, sull’estrazione e sull’esportazione di materie prime senza valore aggiunto, secondo le esigenze del mercato internazionale e senza riguardo per gli ecosistemi (dall’espansione delle monocolture di soia, di canna da zucchero, di eucalipto all’ampliamento dell’attività mineraria e petrolifera). «Siamo arrivati a una situazione – denuncia il noto sociologo e ambientalista Eduardo Gudynas, a cui si deve l’espressione “sinistra marrone” (per il suo deciso interesse verso le miniere e il petrolio) – in cui i Paesi latinoamericani non sanno fare altro che non sia l’estrattivismo» (Plan V, 30/3). 

Non che il cambiamento rispetto ai governi precedenti, totalmente asserviti al “Consenso di Washington” (come è stata eufemisticamente chiamata l'imposizione del modello neoliberista al continente americano e al mondo intero), risulti, almeno in alcuni casi, di poco conto. Basta citare il caso della Bolivia, che, fino a 10 anni fa, come evidenzia Ollantay Itzamná (Alai, 5/5), era il Paese più povero e disprezzato della regione, «un Paese di analfabeti in cui circa il 40% della popolazione vedeva nei libri milioni di formiche senza senso», in cui più della metà della popolazione sopravviveva (o, meglio «soprammoriva») con un dollaro al giorno, in cui più del 60% dei bambini con meno di cinque anni soffriva di denutrizione, in cui i boliviani all’estero si vergognavano di rivelare la propria nazionalità, tanto era bassa la loro autostima. E che, in soli otto anni, sottolinea Itzamná, «è diventato un caso regionale e mondiale», «non solo perché la sua economia cresce del 6,8%», ma anche perché, «dalle sue ceneri, questo popolo vinto si è rigenerato in tempi record». Con il risultato, per esempio, che «più di un milione di persone è uscito dalla povertà», che «l’analfabetismo è stato vinto», che «il salario minimo è aumentato di oltre il 300%». Eppure, l’ambizioso obiettivo della realizzazione di un “Socialismo Comunitario del Buen Vivir” - in grado di coniugare le bandiere dell'uguaglianza e della giustizia con il progetto di ricostituzione delle comunità e delle nazioni originarie - sembra almeno in parte contraddetto dall’espansione dell’estrattivismo nel Paese, al di là dell’appassionata difesa della Madre Terra condotta dal presidente Evo Morales in tutte le sedi internazionali. Pur senza dimenticare come le risorse provenienti dall’attività estrattiva siano utilizzate per migliorare le condizioni di vita della popolazione. E come non manchino gli sforzi per avviare un processo di industralizzazione e di diversificazione dell’economia del Paese.

Dell’andamento di questo processo abbiamo parlato con Teresa Subieta, direttrice dell’associazione Contexto (appoggiata in Italia dal Sal, Solidarietà con l’America Latina, insieme alla rete internazionale Sicsal) arrestata e torturata sotto la dittatura di Banzer (v. Adista n. 98/10), con Marcela Matias, responsabile dell’area Salute e Alfabetizzazione di Contexto, con Ninoska Wuasco Mamani, leader aymara di Lambate (Altopiano dell'Illimani), già consigliera comunale e ora segretaria esecutiva dell'associazione di tutte le donne contadine della Zona del Sud Yungas, e con Luca Pandolfi del Sal. Tutte e tre convinte e appassionate sostenitrici del processo di cambiamento avviato dal governo Morales, pur non negando quanto ancora rimanga da fare per la trasformazione del Paese. Di seguito, il testo dell’intervista alle tre rappresentanti boliviane, seguito - a completare un quadro di enorme complessità - da ampi stralci dell’articolo di Benjamin Dangl, esperto di movimenti sociali latinoamericani e direttore di UpsideDownWorld.org (25/4) e da una coraggiosa nota su attività mineraria e centrali idroelettriche in terre indigene diffusa il 6 giugno da dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, in Brasile. (claudia fanti)

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