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Qualcosa di nuovo

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 19/07/2014

Qual è la vostra valutazione del processo in corso in Bolivia?

TERESA SUBIETA: Quello che abbiamo oggi è un governo democratico, rivoluzionario, popolare. Prima del 2005, prima, cioè, dell’avvento alla presidenza di Evo Morales, la Bolivia presentava uno dei tassi più alti al mondo di mortalità infantile e materna, era il Paese più povero della regione e figurava al primo posto per corruzione e mancanza di trasparenza. Poi ha vinto le elezioni un uomo umile e degno, un figlio della classe indigena e contadina, che, nel 2006, ha nazionalizzato le risorse naturali del nostro Paese, rimaste per più di 180 anni nelle mani delle transnazionali e delle oligarchie locali. Se prima le transnazionali incassavano l’80% dei profitti, lasciando al Paese solo un misero 20%, oggi la percentuale si è esattamente rovesciata: alle imprese spetta il 20%, mentre l’80% va allo Stato. E, così, si è potuto procedere a una ridistribuzione di ricchezza. Non possiamo dire che è cambiato il modello - il sistema dominante è ancora forte -, ma il governo si propone di eliminare la povertà estrema entro il 2025 (e nel frattempo il tasso di mortalità infantile è passato da 76 a 56 per mille nati vivi). In campo politico, la cosa fondamentale è che il partito di governo, il Movimento al Socialismo (Mas), non governa da solo: stanno co-governando anche le organizzazioni sociali, gli operai, la classe media impoverita, tutti quei settori organizzati che, dalla propria esperienza, traggono proposte per la soluzione dei nostri problemi. Quando è stata elaborata la nuova Costituzione, si sono dovute esaminare più di 1.500 proposte provenienti dalla base. La nuova Costituzione, insomma, è un’elaborazione dello stesso popolo boliviano, perché siamo noi stessi ad aver definito quello che siamo, quello che vogliamo e quello che intendiamo fare. E ad oggi sono più di 70 le leggi che sono state approvate per realizzare il cambiamento del quadro giuridico, tutte con la partecipazione della società civile e delle organizzazioni sociali. Pensiamo alla Legge integrale a favore della donna, che noi stesse abbiamo elaborato. O a quella legge contro il razzismo e la discriminazione che avrebbe potuto provocare una spaccatura nel nostro Paese. È facile immaginare come le oligarchie abbiano reagito al fatto che fosse un indigeno a guidare il Paese. E come abbiano cercato in tutti i modi di arrestare il processo, temendo le nostre proposte di cambiamenti strutturali. Non è facile realizzare il cambiamento, ma crediamo che il mondo si sia accorto che la Bolivia sta delineando qualcosa di nuovo, in direzione del Suma Qamaña: il Buen Vivir, che non significa vivere nel lusso, ma garantire l’accesso alla salute, all’educazione, alla casa, condividendo e vivendo in condizioni di uguaglianza. È questa la linea in cui opera Contexto. Prima bussavamo alle porte dei diversi ministeri e nessuno faceva caso a noi. Oggi, con questo governo, le porte ci vengono aperte e possiamo contribuire all’elaborazione della nuova linea politica. Non nego che vi siano errori, ma possono essere corretti. La rivoluzione non si fa dalla notte alla mattina. 

NINOSKA WUASCO MAMANI: Prima, le donne indigene non sapevano né leggere né scrivere, venivano discriminate, non potevano neppure entrare in Piazza Murillo. Oggi le cose stanno cambiando. L’obiettivo della nostra organizzazione, la Federazione di donne contadine Bartolina Sisa, è quello di fare in modo che le leggi vengano rispettate. A livello di parità di genere, per esempio. Molte cose cambieranno con questo processo, nella sfera economica come in quella sociale.

MARCELA MATÍA: È interessante richiamare l’operato di Contexto, dove lavoro dal 1994. Abbiamo deciso di operare nell’area più periferica di La Paz, una zona di estrema povertà, senza strade, senza servizi di base, senza case decenti. La formazione è avvenuta sulla base di quattro pilastri fondamentali. Il primo è quello del rafforzamento dell’organizzazione e della leaderhip femminile. Molte donne non sapevano né leggere né scrivere e andava bene così, almeno era più facile dominarci. Da qui l’importanza dell’alfabetizzazione come strumento di liberazione, condotta dalle stesse donne con una metodologia legata alla loro vita concreta. Una metodologia che ha dato buoni frutti, contribuendo allo sradicamento dell’analfabetismo nel nostro Paese. Il secondo pilastro è quello della salute integrale comunitaria, della quale sono responsabile. La mia scuola è stata Contexto: è qui che ho imparato a considerare la salute in una prospettiva diversa rispetto a quanto appreso a scuola, dove ci insegnavano, per esempio, a seguire una dieta corretta, quando le persone a cui ci rivolgiamo non hanno neppure da mangiare. Così abbiamo cominciato a lavorare sui nessi salute-povertà-malattia. A capire perché siamo povere, perché ci ammaliamo e come possiamo mantenere una buona salute. E la formazione viene condotta dalle stesse donne, in una prospettiva integrale che comprende i servizi di base, l’acqua, ecc. Siamo invece ancora in ritardo, in Bolivia, rispetto a una legge per un Sistema unico di salute: vogliamo che tutti abbiano diritto all’assistenza sanitaria, ma valorizzando anche la dimensione interculturale, quella per esempio della medicina tradizionale, su cui è stata anche emanata una legge. Così come abbiamo una legge di sostegno all’allattamento materno, perché negli ospedali veniva incoraggiato l’uso del latte artificiale, in linea con la tendenza delle transazionali a trasformare anche la salute in merce. Il terzo pilastro riguarda la presenza del medico (prima confinato nel centro di salute) all’interno della comunità e la partecipazione attiva di quest’ultima, in termini di recupero della nostra cultura e delle nostre tradizioni. L’ultimo pilastro è quello della formazione tecnica e produttiva. Perché puoi avere una buona salute, puoi saper leggere e scrivere, puoi essere in grado di esercitare una leadership, ma, se non hai un reddito, tutto è destinato a crollare. Questi quattro pilastri devono funzionare in maniera congiunta affinché le donne possano difendere i propri diritti e incidere politicamente in ogni ambito del nostro Paese.  

Esistono letture diverse e persino opposte del processo boliviano all’interno degli stessi movimenti sociali. Da un lato si sottolinea come il governo abbia restituito dignità al popolo e promosso, in quello che un tempo era il Paese più povero dell’America Latina, uno sviluppo record. Dall’altro si parla di una crisi del processo di cambiamento, di violazione dei principi costituzionali, dei danni incalcolabili del modello estrattivista, in contraddizione con il discorso di difesa della Pacha Mama portato avanti, soprattutto in sede internazionale, dal presidente Evo Morales. Come si spiega tale difformità di vedute?

T. S.: È difficile cambiare l’economia di un singolo Paese restando all’interno di un sistema come quello attualmente dominante nel mondo. Ma, in confronto ad altre nazioni, la Bolivia sta perseguendo un processo di industrializzazione di segno diverso da quanto stabilisce il sistema capitalista. Finora le classi povere erano servite solo come riserva di manodopera a basso costo. Ora invece si sta cominciando a investire nella formazione tecnica e scientifica dei nostri giovani, nella prospettiva di un processo di industrializzazione che ci riscatti dalla condizione di Paese monoproduttore o estrattivista, e che sia pensato comunitariamente, al di fuori del circuito del sistema di sfruttamento capitalista. Non si può pretendere che si risolva in otto anni quello che non si è fatto in 180 anni. Qualcosa, però, sta già nascendo. Si sta cercando di effettuare la prima lavorazione del litio nel nostro Paese, stiamo costruendo fabbriche di sementi, è nata un’impresa che produce carta, la Papelvol. 

N. W. M.: Rispetto alla questione ambientale, se da un lato il governo punta all’industrializzazione del Paese, dall’altro evidenzia la necessità di prendersi cura della Madre Terra. Come organizzazioni sociali, siamo impegnati su questo aspetto. Al Vertice del Gruppo dei 77 più la Cina (di cui in realtà fanno parte 133 Paesi), che si è svolto a Santa Cruz il 14 e 15 giugno, Evo ha rivolto con forza un appello alla preservazione dell’ambiente. E la nostra Costituzione riconosce i diritti della Pacha Mama, la Madre Terra che ci dà la vita e ci alimenta. Vorrei che questo appello per la cura dell’ambiente fosse raccolto da tutti, in uno scambio di esperienze tra i diversi popoli per la salvezza del pianeta. 


Non pensate che ci sia una contraddizione tra le parole e i fatti? 

M. M.: In effetti potrebbe apparire contraddittorio il fatto che il presidente stia portando avanti un discorso di questo tipo e poi applichi misure come la Ley Minera. Ma si tratta di piani differenti. Per prima cosa, l’industrializzazione dei nostri idrocarburi deve essere condotta da noi boliviani e non lasciata all’iniziativa di altri, che inquinerebbero molto di più. Si tratta inoltre di un’industrializzazione finalizzata a una distribuzione comunitaria, non all’arricchimento di pochi. 


Ma l’impatto sull’ambiente non è uguale?

M. M.: Esistono misure per preservare la natura. Per esempio, il Ministero dell’Acqua ha promosso quello che è stato chiamato “banco de plantines” per avviare un grande processo di riforestazione con la partecipazione di tutte le organizzazioni. Si sta portando avanti un lavoro di formiche. 

T. S.: La cosa più importante è quella di promuovere un processo di decolonizzazione mentale, perché anche noi siamo stati abituati a vivere in maniera egoista e individualista, trascurando i nostri valori culturali comunitari. Ora dobbiamo impegnarci a costruire l’uomo e la donna nuovi. E questo è un processo lungo. Nessuno dice che la Bolivia sia già cambiata completamente, il processo è soltanto iniziato.

Grandi polemiche ha suscitato il progetto di costruzione della strada Villa Tunari-San Ignacio de Moxos, il cui secondo tratto taglierebbe in due il Tipnis, il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure, in cui vivono 67 comunità indigene (v. Adista Notizie n. 73/11). Che ne è del progetto?

T. S.: All’epoca ero presidente dei Comitati per i Diritti Umani e la Pace della Bolivia e ho potuto constatare quanto la questione fosse stata politicizzata. È chiaro che bisogna proteggere le aree verdi. Purtroppo, però, i partiti dell’opposizione hanno manipolato le proteste. Una strada nel Tipnis c’è già e viene utilizzata dalle imprese per sfruttare il legname e persino per costruire alberghi. E allora di quale difesa dell’ambiente parlavano?  Di denaro ne è entrato molto, ma non per il benessere delle comunità, bensì solo per poche persone, che poi sono quelle che hanno accusato Evo di non rispettare la Madre Terra. Il governo ha emanato una legge di protezione del parco, ma il punto centrale è garantire l’educazione, la salute, la casa, perché i nostri fratelli del Tipnis vivono in condizioni di povertà estrema. Non a caso, su 67 comunità, più di 60 si sono pronunciate a favore del progetto, pur nel rispetto dell’ambiente. Per il momento è tutto sospeso: Evo ha preso atto che serve un processo di riflessione più lungo.  


Quali sono i rapporti tra Chiesa e governo?

T. S.: Ci sentiamo parte della Chiesa di base, della Chiesa della Teologia della Liberazione nata con il Vaticano II e con Medellín e fondata sul Vangelo del Gesù liberatore. Negli anni ’60-’70, in Bolivia, abbiamo avuto uomini e donne che hanno dato la vita, come nelle terre sante di El Salvador e del Guatemala, nella lotta in difesa dei poveri. Qui è stato assassinato Luis Espinal, mio grande amico. Qui è stato assassinato l’oblato canadese e sociologo Mauricio Lefebvre. «Io - scriveva nelle sue lettere - sono venuto con l’idea di evangelizzare gli indigeni, ma sono loro che hanno evangelizzato me». La maggior parte della gerarchia ecclesiastica, però, non è su questa linea, opponendosi, esplicitamente o implicitamente, a questo processo di cambiamento, evocando lo spettro del comunismo. Il popolo boliviano è convinto che Dio sia stato sempre presente nei suoi valori ancestrali, e vuole recuperarli. E vuole l’eliminazione della povertà estrema, vuole acqua potabile, luce, una casa degna, accesso alla salute e all’educazione. È quello che voleva Espinal, quello che voleva Romero. 

M. M.: Tutto quello che vogliamo è iscritto nella nostra wiphala (bandera quadrangolare di sette colori utilizzata dagli indigeni del mondo andino, ndt). I colori sono quelli dell’arcobaleno, segno di pace tra Dio e l’umanità, ciascuno dei quali rappresenta un aspetto della nostra patria: il bianco la pace, il verde le ricchezze dei nostri boschi, il giallo la nostra ricchezza aurifera, e così via. Il quadrato ha a che vedere con la plurinazionalità, la pluriculturalità, l’interculturalità, perché un Paese si costruisce con la partecipazione di tutti. C’è posto per tutti nella wiphala, e per tutto il mondo. Il Paese che vogliamo costruire è senza frontiere, perché tutti siamo fratelli e sorelle in uguaglianza.


Come in inserisce il Sal in questo processo?

LUCA PANDOLFI: Siamo siamo stati in Bolivia molte volte e possiamo dire che negli ultimi tre-quattro anni i cambiamenti sono diventati evidenti, in termini di costruzione di case, scuole, ospedali, organizzazione, progetti di sviluppo agricolo. Si assiste a un fiorire graduale e progressivo dell’economia boliviana. E dietro queste esperienze, pur contraddittorie, c’è uno Stato che non agisce da solo, ma opera in connessione con i movimenti sociali, con realtà fortemente organizzate e spesso critiche, con organizzazioni di donne attente e vigili. Al di là delle omissioni dell’informazione internazionale, il processo è ancora molto giovane, e segnato da divisioni tra realtà e dimensioni politiche. Il caso del Tipnis, per esempio, parla esattamente di un mancato incontro tra i cocaleros e la popolazione indigena amazzonica. Ma, guarda caso, la protesta del Tipnis era sostenuta dall’Usaid (Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale). Di fronte a un dissenso che poteva essere sanato, è stato montato un caso. Con finanziamenti terribilmente sospetti. Ci sono contraddizioni, è vero, ma c’è anche una grande voglia di esprimerle. Credo che la Bolivia sia l’unico Paese in cui esiste un Ministero della trasparenza. Abbiamo incontrato la ministra, Nardi Suxo Iturry, minacciata costantemente anche da persone interne al governo. E lei ne parla esplicitamente, spiegando che la corruzione non è un problema che si può debellare in otto anni. Quale Paese, mi chiedo, ha un Ministero della Trasparenza il cui obiettivo è fare le pulci allo stesso governo? Le contraddizioni ci sono, ma sono dichiarate e anche combattute. È tutto risolto? No di certo. Esistono divisioni tra mondo amazzonico (los llanos) e quello andino. Ma esistono alti livelli di dialogo e di mediazione che è difficile incontrare nella stampa. E c’è tanta organizzazione civile che sta lì a fare massa critica.  

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