PAPA FRANCESCO A REDIPUGLIA: PER I PRETI DEL NORD EST UN’OCCASIONE PER RILANCIARE PACE E DISARMO
Tratto da: Adista Notizie n° 32 del 20/09/2014
37778 REDIPUGLIA-ADISTA. «Non ho ancora mosso un passo dal luogo in cui mi riposavo. Albeggia. Scorgo alla prima luce incerta di quest'alba una forma umana stesa ai miei piedi. Osservo meglio; mi chino… orrore… ho dormito sopra un cadavere austriaco… le mie mani… gli abiti… tutto intriso di sangue umano, del sangue del nemico morto. Con terrore mi allontano dal cadavere… Ma qui, cadaveri austriaci sono sparsi ovunque. La morte ha svolto un poderoso lavoro».
C’è tutto l’orrore di quell’«inutile strage» che fu la I Guerra mondiale in queste parole del mitragliere Agostino Tambuscio che lasciò nero su bianco, nel suo quaderno di appunti, i mesi passati in trincea e poi in un campo di prigionia in Austria (il suo quaderno è conservato presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e fa parte, insieme con i racconti di tanti altri, del progetto “La Grande Guerra, i diari raccontano”, frutto della collaborazione con il gruppo editoriale L’Espresso). Nessuna traccia di quella retorica nazionalista e militarista che in questi mesi ha caratterizzato le celebrazioni ufficiali del centenario del conflitto (v. Adista Segni nuovi n. 22/14): solo la testimonianza di uno dei centinaia di migliaia di soldati italiani – e non – mandati al macello.
Un tassello di quella «memoria dolorosa» che, come scrive un gruppo di preti del nord est in una lettera al papa in occasione della sua visita al sacrario di Redipuglia il 13 settembre, «rinnova l’impegno per il disarmo e per la pace». Confidando che papa Francesco, «con la libertà che lo ha finora caratterizzato», «sappia evidenziare un modo diverso e alternativo di “ricordare” un’intera generazione di giovani mandati al massacro nella guerra di trincea», il gruppo (autore della consueta Lettera di Natale e composto da Pierluigi Di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Andrea Bellavite, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Renzo De Ros, Albino Bizzotto, Antonio Santini) propone quindi alcuni spunti di riflessione, in «sintonia con gli interventi dei vescovi del Friuli Venezia Giulia, in particolare con la lettera pastorale ad hoc pubblicata recentemente dall’arcivescovo di Gorizia, mons. Redaelli» e lamentando che l’evento sia stato gestito esclusivamente dall’Ordinariato militare.
«Il Sacrario di Redipuglia – scrivono – è stato voluto e inaugurato da Mussolini in persona, dopo una visita al cimitero prima collocato sulla collina di fronte, a suo dire triste e poco curato. La struttura architettonica è finalizzata all’esaltazione dell’eroismo in battaglia; le tombe del Duca d’Aosta e dei quattro generali sono collocate davanti ai 100mila che anche da morti sembrano dire “presente”, come scritto sulla loro tomba; quindi pronti a combattere di nuovo per l’idolo fascista di una “patria” che non ha nulla a che fare con la “Patria” delle donne e degli uomini che s’impegnano per la giustizia, la libertà, la democrazia, i diritti umani uguali per tutti». È quindi particolarmente attesa la parola del papa, «per essere richiamati al fatto che la memoria non è soltanto legittimo onore ai caduti, ma anche accoglienza del loro monito». «Che cosa suggeriscono le pietre tombali?», proseguono: «Un’unica parola: “Pace!”».
Alla luce di questo, il gruppo sottolinea l’importanza di interrogarsi sul presente, indicando tre aspetti da tenere in particolare considerazione. «L’amara constatazione che, nonostante l’orrore che suscita, la guerra sia ancora ritenuta uno strumento per risolvere i problemi degli Stati e le loro relazioni internazionali», mentre l’unica via possibile è quella della «nonviolenza e del ripudio della guerra»: «Del resto – scrive il gruppo – già Benedetto XV proponeva il disarmo generale e il mantenimento degli strumenti di morte “esclusivamente nei limiti richiesti dal mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati”. Sarebbe interessante che ogni Paese, anche l’Italia, tuttora tra i primi dieci produttori mondiali di armi cosiddette “convenzionali”, si interroghi sulla formazione dei propri arsenali militari, alla luce di queste parole».
C’è poi un elemento che riguarda più specificamente i cristiani. «La prima guerra mondiale ha visto contrapporsi persone che professavano la stessa fede e la stessa confessione. Preti cattolici benedivano le armi italiane invocando la protezione delle pallottole, affinché colpissero l’avversario; preti cattolici benedivano i cannoni austro-ungarici con le stesse parole, vescovi dell’una e dell’altra parte invitavano i fedeli a Te Deum di ringraziamento per le stragi perpetuate dai “propri” eserciti nei confronti degli “avversari”». «Sono situazioni del passato – si chiedono – o anche oggi i “cristiani” non leggono sempre con gli occhi di Cristo e nella luce dello Spirito Santo gli avvenimenti attuali?». «Raramente si pensa e si prega per le persone coinvolte in tante guerre dimenticate, quasi sempre provocate dal dislivello tra il nostro tenore di vita e quello del Sud del mondo. Milioni di persone emigrano dalla loro terra, fuggendo dalla fame, dalle persecuzioni e dalla guerra e spesso non soltanto non vengono considerate come sorelle e fratelli, membri della nostra famiglia umana, immagine e somiglianza di Dio, ma ci si allinea nelle ben poco cristiane distinzioni tra i “noi” che avrebbero il diritto di sentirsi a casa propria e i “loro” che vengono ad invadere. Spesso sono proprio coloro che frequentano le chiese a sostenere la necessità di una linea di durezza e non accoglienza in nome di un presunto egoistico diritto alla sicurezza; spesso sono proprio loro a fomentare l’incomprensione tra le religioni, lasciandosi trascinare in pregiudizi dettati da indebite e ignoranti generalizzazioni. Come se vivere nell’Occidente ricco sia frutto di una scelta o di un merito».
E c’è infine il richiamo ad agire, perché «la contrarietà alla guerra non si esprime soltanto con le parole, ma anche con scelte politiche e di vita personali conseguenti. Ricordare il Centenario vuol dire allora per chi vive presso l’ex confine orientale d’Italia, ritrovare la gioia della comunione nella ricchezza della diversità delle culture e delle lingue». «E pur rispettando il dolore soggettivo degli uni e degli altri, significa superare antichi rancori attraverso il desiderio di guardare avanti, per trasformare una terra dove troppo sangue fraterno è stato versato in un autentico laboratorio per la costruzione della giustizia e della pace in tutto il mondo». «L’adoperarsi a costruire nuove relazioni fra le persone, improntate alla concordia e alla pace e avviate dal decisivo esercizio del perdono – concludono – è il vero modo per celebrare efficacemente i 100 anni dall’inutile strage». (ingrid colanicchia)
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