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Dire la verità e difendere i poveri. El Salvador non dimentica i martiri della Uca

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 13/12/2014

DOC-2676. ROMA-ADISTA. 25 anni sono passati da quando, il 16 novembre del 1989, il famigerato battaglione Atlacatl eseguì l’ordine trasmesso da un gruppo di alti militari di eliminare p. Ignacio Ellacuría senza lasciare testimoni (v. Adista n. 90/10). Insieme al rettore della Uca (l’Università Centroamericana di San Salvador), morivano così il sociologo Segundo Montes, fondatore dell’Idhuca (Istituto per i Diritti Umani della Uca), particolarmente impegnato a favore dei rifugiati; Ignacio Martín-Baró, pioniere della psicologia della liberazione e pastore delle comunità ecclesiali di base; Juan Ramón Moreno, docente di teologia e maestro dei novizi; Amando López, già rettore del Seminario San José de la Montaña e della Uca di Managua, in Nicaragua, dove aveva difeso i perseguitati della dittatura; Joaquín López y López, primo segretario generale della Uca e fondatore di “Fe y Alegría”, movimento di educazione popolare e promozione sociale. E morivano con loro la cuoca Julia Elba e sua figlia Celina, che il teologo Jon Sobrino, scampato al massacro perché fuori dal Paese, avrebbe identificato come martiri di quel popolo crocifisso che non è noto né venerato, eppure è espressione del “Servo sofferente di Jahvé” che porta alla salvezza. 

Era, quel massacro, la risposta dei vertici militari all’offensiva lanciata l’11 novembre dal Fronte Farabundo Martí (Fmln), la più grande dall’inizio della guerra civile, quando la guerriglia arrivò a occupare per alcuni giorni ampie zone della capitale. In quel momento di massima tensione, scrive il gesuita Michael Czerny in occasione del XXV anniversario della strage (Adital, 18/11), quello che più temevano le forze armate - decise a impedire una soluzione negoziata al conflitto e a tornare alla strategia di “guerra totale”, attraverso l’eliminazione dei nemici reali o potenziali e la distruzione di ogni tipo di resistenza possibile - «era che p. Ellacuría potesse essere chiamato a svolgere il ruolo di mediatore, obbligandole a riconoscere il Fmln e a fare concessioni». 

Nessuno ha pagato per quella strage: la Ley de Reconciliación e la Ley de Amnistía, approvate nel 1993, hanno garantito l’impunità a tutti i partecipanti al massacro. Per questo, nel novembre del 2008, due associazioni (una spagnola, l’Associazione per i Diritti Umani, e l’altra statunitense, il Centro di Giustizia e Responsabilità di San Francisco) avevano chiesto che l’allora presidente Alfredo Cristiani e altri 14 militari coinvolti nel massacro fossero giudicati in Spagna dalla Audiencia Nacional de Madrid per crimini contro l’umanità e terrorismo di Stato, ottenendo, nel 2009, che il giudice Eloy Velasco si dichiarasse competente ad avviare un processo contro i 14 militari, escludendo però dalle indagini, per la mancanza di indizi rilevanti a suo carico, l’ex presidente Cristiani (accusato di aver acconsentito alla strage e, in seguito, di aver coperto i militari coinvolti, occultando informazioni e avviando un’indagine viziata da palesi e gravi irregolarità). Una strada disseminata di ostacoli: se la Corte Suprema di Giustizia di El Salvador ha respinto nel 2012 la richiesta di estradare in Spagna i militari accusati, con la motivazione che, al momento del massacro, la legislazione del Paese proibiva l’estradizione di cittadini salvadoregni (v. Adista Notizie n. 20/12), lo scorso marzo un nuovo impedimento è venuto dalla riforma della giustizia voluta dal governo di Rajoy per ridimensionare la portata del principio di giurisdizione universale, vigente nella legge spagnola sin dal 1985 (in base a cui, nei casi di crimini contro l’umanità è possibile superare il limite delle frontiere geografiche o della nazionalità delle vittime), finché, finalmente, il 3 ottobre scorso l’Audiencia Nacional ha stabilito che la giustizia spagnola potrà proseguire la causa riguardante il massacro dei sei gesuiti e delle due donne.

25 anni dopo quella strage, in ogni caso, El Salvador non dimentica (e non dimenticano in tanti, nel mondo intero): così, all’anniversario del martirio dei gesuiti e delle due donne, la Uca dedica, sotto il titolo “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, un fitto programma di attività, tra esposizioni fotografiche, incontri, pellegrinaggi, celebrazioni eucaristiche e conferenze. Fare memoria del massacro - ha scritto su Carta a las Iglesias (n. 654) il gesuita Rodolfo Cardenal - «significa avvicinarsi con rispetto e stupore a un popolo e a una Chiesa martiriali», «significa esprimere gratitudine per queste vite così generosamente donate e impegnarsi a donare la propria per liberare l’umanità dall’ingiustizia»; «significa evidenziare la necessità e l’urgenza di lottare per l’umanizzazione di un mondo disumano». 

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’intervento tenuto dal teologo Jon Sobrino durante la conferenza svoltasi il 13 novembre sul tema “25 anni dopo, cosa è cambiato in El Salvador?”, tratto da un video - a cui è possibile accedere sul sito della Uca (www.uca.edu.sv/XXVaniversario/ver-texto.php?texto=3322) - e non rivisto dall’autore, e la riflessione di Benjamín Cuéllar, già direttore dell’Istituto per i Diritti Umani della Uca, tratta dal n. 654 di Carta a las Iglesias. (claudia fanti)

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