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I cattolici conciliari e papa Bergoglio

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 5 del 07/02/2015

Il punto di partenza si situa nel febbraio 2013. La rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI fu un atto storico e inatteso. Esso dischiudeva la porta al ridimensionamento della centralità istituzionale e sacrale (Santo Padre) assunta dal papa soprattutto a partire dal XIX secolo. La perdita del potere temporale si accompagnò, infatti, all'esaltazione della figura papale. Il Vaticano I, il Concilio interrotto dalla breccia di Porta Pia, è lo stesso che proclamò il dogma dell'infallibilità del papa.

Il tempo opportuno sembrò concretizzarsi il 13 marzo 2013 quando dalla loggia di San Pietro fu annunciata l'elezione al soglio pontificio del card. Bergoglio. Alla scelta inedita del nome, Francesco, si accompagnò un modo di presentarsi al popolo incentrato sul definire se stesso esclusivamente come vescovo di Roma. Il tempo della collegialità e del ridimensionamento della centralità verticistica sembrava ormai alle porte.

Lo stile popolare nelle parole e nei gesti di Francesco furono accompagnati dalla rottura con molti schemi propri dell'etichetta della “corte papale”. Tutti coloro che trovavano nella prassi curiale il maggior impedimento al rinnovamento evangelico della Chiesa cattolica salutarono il visibile mutamento come un'occasione irripetibile per completare la svolta conciliare iniziatasi con il Vaticano II. La definizione di Chiesa come popolo di Dio ritornava a essere una prospettiva concreta; addirittura era il vertice stesso a inchinarsi verso la base e a chiedere di esserne benedetto.

Cinquant'anni sono lunghi nella vita del mondo, specie nel XX e nel XXI secolo. L'epoca del Concilio è lontana. Il Vaticano II è stato forse il primo esempio di un avvenimento ecclesiale di lunga durata dotato di un forte impatto giornalistico e televisivo; tuttavia i giornali e la televisione di allora sono abissalmente differenti da quelli di oggi; dal canto loro, a quel tempo, la rete e i social network erano ben lungi dal venire. Nel Sessantotto il simbolo per eccellenza della comunicazione fu il ciclostile. Nei successivi anni di piombo si parlava ancora di volantini.

Perché questa apparente digressione? Perché il pontificato di papa Francesco è mediatico come nessun'altro in precedenza. Anche il «grande comunicatore» Giovanni Paolo II, al confronto, sembra appartenere a un mondo superato. L'unicità di una figura vestita in modo diverso da quello di tutti gli altri fratelli nell'episcopato, accompagnata dall'informalità nei comportamenti, nelle parole e nella comunicazione di Francesco hanno reso il papa una icona mediatica che non conosce confronti. La centralità del pontefice, lungi dall'essere ridimensionata, oggi è esaltata in maniera assoluta. La sua immagine è ovunque. Tutti sono obbligati a parlare di lui. Questo articolo non fa ovviamente eccezione.

La valanga delle pubblicazioni dedicate a papa Francesco si può spiegare anche a motivo del disperato bisogno di trovare lettori da parte di chi cerca di vivere attraverso la produzione cartacea. Si tratta di una forma di sfruttamento ancora contenuta data la natura “arcaica” del mezzo. Non così per altre forme di comunicazione che vanno dalla rete alla presenza fisica di masse sterminate di persone (a Manila si è parlato di 7 milioni) radunate per partecipare a un evento che, de facto, vede al centro il papa e non la celebrazione del mistero di Gesù Cristo. Tutto ciò è oggettivamente in conflitto con il messaggio di povertà che Francesco vuole trasmettere. Per portare il discorso a un estremo volutamente paradossale, il papa si impegna a comunicare la centralità del Vangelo, ma l'attenzione ricade più su di lui che su Gesù Cristo.

Perché un largo settore dei “cattolici conciliari”, da sempre fautori della collegialità, non appare preoccupato da questa centralità riassunta dalla figura papale? La risposta sembra largamente dipendere dal permanere  in quell'ambito di un'analisi che giudica negativamente l'istituzione. In quell'area la Curia è vista come il simbolo riassuntivo dei mali della Chiesa. Essa rappresenta quindi il nemico contro cui mobilitarsi. Lo schema che vede una Curia conservatrice appoggiata da lobby di varia natura tramare contro il papa innovatore, si rafforza ulteriormente se lo si completa affermando che anche Francesco è contro la Curia (vedi il modo in cui è stato interpretato il discorso del papa alla Curia romana del 22 dicembre scorso). Larghi strati del cosiddetto cattolicesimo conciliare sembrano non riuscire a liberarsi da questo gioco. Tuttavia il futuro della fede cristiana deve rispondere a ben altre sfide. Tra esse il ridimensionamento della centralità del papa costituisce solo un, sia pur non trascurabile, tassello.

* Redattore della rivista "il Regno" , presidente di Biblia, associazione laica di cultura biblica, docente di Ebraismopresso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (Milano)

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