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Il mistero di un universo abitato. Riflessioni sul Principio Antropico

Tratto da: Adista Documenti n° 10 del 14/03/2015

DOC-2698. ROMA-ADISTA. Più ci si addentra nella conoscenza della meravigliosa epopea del cosmo, più diventa pressante la madre di tutte le domande, quella sul senso della nostra presenza nell’universo. È non a caso tale domanda che soggiace alla complessa questione del Principio Antropico, uno dei principali nodi di tutta la ricerca cosmologica. Un principio che stabilisce un’apparente ovvietà – che cioè le leggi fisiche e le condizioni iniziali del Big Bang devono essere quelle che sono affinché la nostra esistenza sia possibile – ma che rimanda ad assai diverse interpretazioni. Se, infatti, nella sua “versione debole”, il Principio Antropico si limita all’affermazione in un certo senso tautologica che l’universo che osserviamo deve essere coerente con la nostra presenza come osservatori, in quella “forte”, invece, stabilisce che l'universo possiede proprio quelle proprietà che permettono alla vita, o, in altri termini, agli osservatori, di svilupparsi al suo interno. Un’affermazione, quest’ultima, che allude a una qualche sorta di finalità presente nel cosmo, come se tutto il lungo cammino a partire dal Big Bang tendesse proprio all’apparizione dell’essere umano: «Era necessario che la vita e il pensiero fossero inscritti nelle potenzialità dell’universo primitivo», ha sostenuto per esempio l’astrofisico Hubert Reeves, secondo cui «le proprietà della materia sono esattamente quelle che assicurano la fertilità del Cosmo e l’apparizione della coscienza» (v. Adista Documenti n. 29/10). E, in maniera ancora più esplicita, Freeman Dyson ha dichiarato: «Quanto più esamino l’universo e la sua architettura, più trovo evidente che l’universo in un certo modo debba aver saputo che eravamo in cammino» (v. Adista Documenti n. 16/12).

Quel che è certo è che le leggi fisiche devono essere molto particolari per rendere possibile la nostra presenza. È il concetto di “regolazione fine” (fine tuning, in inglese, concetto in base a cui il parametro di un modello deve trovarsi all’interno di un intervallo molto ristretto di valori, senza che esista nessuna ragione plausibile a priori, ndt): la struttura fisica del nostro universo deve essere racchiusa entro limiti molto stretti perché sia possibile l’evoluzione della vita basata sul carbonio. Di sicuro, i dati sconcertanti non mancano: dall'inizio del cosmo, in base ad alcuni calcoli, non sarebbe trascorso abbastanza tempo perché possa aver avuto luogo una collisione casuale di atomi per dare forma a un singolo aminoacido, eppure gli aminoacidi esistono, sia sulla Terra che in tutta la galassia. Ed è semplicemente inconcepibile che un enzima composto di una piccola catena di venti o trenta aminoacidi si possa formare per puro caso: la probabilità che ciò accada è, secondo Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, di una su 10 alla 40.000 vale a dire su 1 seguito da quarantamila zeri. Addirittura, secondo i calcoli del fisico matematico Roger Penrose, la probabilità che tra tutti i risultati possibili del Big Bang si sviluppasse un universo in grado di ospitare la vita umana è di 1 su 10 alla 10.123: ossia 1 seguito da 10 alla 123 zeri, qualcosa di inimmaginabile se si pensa che il numero di atomi che si presume esistano nell’intero universo è stimato “appena” tra 10 alla 72 e 10 alla 87.

E così, per spiegare la “regolazione fine” del cosmo senza dover ricorrere ad un “Regolatore divino”, sono state avanzate diverse ipotesi, a cominciare dalla teoria del multiverso (teoria che, in tutte le sue varianti, viene però considerata da diversi fisici non scientifica in quanto non verificabile), secondo cui esisterebbe un'infinità di universi, ciascuno con le proprie leggi e le proprie costanti fisiche, e a noi sarebbe semplicemente capitato di abitare in un universo - o, secondo un’altra variante della teoria, in una parte infinitesima di un immenso megaverso popolato da un numero sterminato di quelli che il fisico Alan Guth ha chiamato universi-bolla - in cui la vita è possibile. Una teoria che dunque ridimensionerebbe con forza il mistero dell'esistenza di leggi fisiche apparentemente fatte su misura per noi, in quanto, secondo tale modello, queste leggi riguarderebbero appena la nostra piccola bolla all'interno di un paesaggio cosmico tale da ammettere uno spettro di possibilità oltre ogni immaginazione. «Qualcosa di analogo - come hanno scritto Leonardo Boff e Mark Hathaway (v. Adista Documenti n. 13/14) - all'idea secondo cui, dato un infinito numero di scimmie che picchiano a casaccio sui tasti di una macchina per scrivere, almeno una di esse creerà per caso l'opera completa di Shakespeare». Sempre che, come evidenziano altri fisici, non sia sufficiente aspettare che, con il progresso della conoscenza scientifica, appaiano nuove idee in grado di spiegare il valore, oggi apparentemente arbitrario, di queste costanti, svelando il perché della “regolazione fine” nel quadro degli stretti confini della scienza. 

In ogni caso, l’esistenza o la non esistenza di un Regolatore non sarà mai una verità scientifica da verificare o scartare: come evidenzia Enrique Iáñez, docente di Microbiologia all’Università di Granada, «il concetto di finalità (…) non deriva da alcun principio fisico né da alcuna equazione o attività delle forze della natura, ma appartiene al campo della metafisica, sebbene, per formularlo in modo congruente, si debba tener conto di ciò che dice la scienza sulla realtà materiale». E, dunque, il credente potrà legittimamente sostenere - come, altrettanto legittimamente, può sostenere il contrario l’ateo - che l’universo spiegato dalla scienza è compatibile con l’idea della creazione, interpretando il meraviglioso ordine dell’universo e il fatto che la mente umana possa coglierlo come un riflesso della mente del Creatore: «È certamente sorprendente - ha evidenziato il fisico, filosofo e teologo britannico John Charlton Polkinghorne - che un universo intellegibile, fecondo, aperto e interrelazionato risulti così congruente con l’idea di un Creatore immanentemente attivo». 

È proprio sulle implicazioni del Principio Antropico e della “regolazione fine” che si soffermano Enrique Iáñez e Carlos Beorlegui, docente di Antropologia all’Università di Deusto, nei due interventi apparsi (rispettivamente il 28/1 e il 10/2) sulla rivista Tendencias 21, nella sua sezione “Tendencias de las religiones” (www.tendencias21.net), di cui riportiamo di seguito ampi stralci in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)

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