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Lettera agli amici. Missione a Napoli

Lettera agli amici. Missione a Napoli

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 7 del 20/02/2016

Carissimi, pace e bene! Mi sembra giusto farvi partecipi del cammino che stiamo facendo con la nostra gente delle “periferie” di Napoli in questi ultimi mesi, densi di avvenimenti.

Il tutto è iniziato il 6 settembre scorso con l’uccisione, alle 4 del mattino, in piazza Sanità, di un ragazzino di 17 anni, Genny Cesarano, per mano di una banda di otto giovanotti che, sparando all’impazzata a bordo di alcune moto, hanno colpitoGenny alla schiena mentre fuggiva. Sono le bande che terrorizzano il territorio per il controllo del mercato della droga. Avevo sentito nella notte quegli spari, ma mi sembravano i soliti botti da fuochi d’artificio. Al mattino, quando scesi in piazza, mi fu subito detto che Genny era stato ucciso. Avvisai il parroco, don Antonio Loffredo. Era domenica mattina. Quando arrivò, gli dissi: «Non mi sento di celebrare la messa in chiesa, con il sangue ancora fresco sulla piazza». Nonostante le proteste dei fedeli, non celebrai. «Sarebbe meglio –  dissi poi al parroco – che noi preti celebrassimo un’unica Eucaristia in piazza Sanità, dov’è stato ucciso  Genny». Il parroco accettò la sfida, ma non la polizia, che ci pedinò per tutto il mattino, intimandoci di non celebrare in piazza. Chiesi alla dirigente perché il questore avesse posto il veto. «Il questore – mi disse – ha paura che la gente del Rione scenda in piazza». Le risposi seccamente: «Magari scendesse in piazza! Glielo dica al Questore!».

Per la messa che abbiamo celebrato a mezzogiorno, scelsi dei testi biblici appropriati, presi dal libro di Daniele: «Noi abbiamo peccato»; dal profeta Isaia: «Le vostre mani grondano sangue»; e dal Vangelo di Luca: «Se non vi convertite, perirete tutti». Una parola forte che scosse l’assemblea cristiana in piazza. «Le nostre mani grondano sangue – dissi all’omelia – siamo tutti responsabili (Chiesa compresa!) per la morte di questo ragazzino. Abbiamo tutti peccato. E se non cambiamo strada, periremo tutti. Non verrà nessuno a salvarci. Noi, popolo della Sanità, dobbiamo alzare il capo e urlare: “Basta!”».

Dopo la celebrazione, la dirigente della Polizia mi consegnò il decreto del questore che proibiva la celebrazione in piazza. Sorrisi. Con stupore invece vedemmo una decina di donne del Rione arrivare in sacrestia. «Noi non possiamo accettare che i nostri figli finiscano così. Noi vorremmo organizzare una fiaccolata di protesta per le strade del Rione. Voi preti, potreste aiutarci?». Era la prima volta che le donne della Sanità osavano tanto. «Siamo pronti ad aiutarvi», rispondemmo. Preparammo la fiaccolata per il giorno seguente con un’affollata assemblea in chiesa. Decidemmo di preparare uno striscione: “No Camorra!” e di piantare un ulivo in piazza (al posto di un albero tagliato dai ragazzini del Rione!). Dietro a quella scritta, sfilò un lungo corteo con migliaia di persone. Ero commosso. Era la prima volta che questo avveniva alla Sanità. Evidenti le tensioni durante il corteo.

Finalmente, il 10 settembre, il questore, dopo tante nostre pressioni, permise il funerale pubblico di Genny, ma lo fissò alle 7.30 del mattino. Di nuovo il parroco mi chiese di presiedere l’Eucaristia. In una chiesa strapiena, S. Maria della Sanità, ricordai a tutti che che eravamo lì a celebrare il Dio della Vita che non può accettare la morte di un diciassettenne, conseguenza di quella “bomba sociale” che è la “Napoli malamente” (in questa metropoli vi sono due città, quella “malamente” e la “Napoli bene”, due città che non vogliono incontrarsi). Chiesi alla gente della Sanità di avere il coraggio di alzare la testa  contro le camorre e la criminalità “disorganizzata” (tipica di Napoli). Con altrettanta forza chiesi alle autorità di non abbandonare il quartiere, ma di sostenere quelle piccole iniziative che stavano sbocciando nel Rione.

Una folla immensa ha vissuto con commozione quella celebrazione che si concluse alle nove (l’ordine perentorio del Questore era che doveva finire per le 8.20). Il popolo poi sfidò nuovamente il Questore portando la bara di Genny a spalla attraverso la Sanità, in un silenzio surreale, fino a Piazza Cavour, fuori dal quartiere.

Pochi giorni dopo il funerale, il papà di Genny e i rappresentanti della cittadinanza attiva di Napoli vennero a chiedere a noi preti di organizzare una marcia cittadina per chiedere i diritti di coloro che vivono nelle periferie e nel centro degradato. A nome dei preti della Sanità risposi che avremmo tentato di accompagnare una tale marcia solo se i parroci che operano nelle zone a rischio, sia del centro che delle periferie, avessero deciso di essere a fianco di un popolo che vuole alzare la testa.

Così lentamente noi preti della Sanità iniziammo a contattare i parroci che operano nei quartieri popolari, contagiando con questa idea tanti di loro. Riuscimmo anche a trovare un parroco che accettò di essere il portavoce di questo popolo in movimento, don Enzo Liardo.

Un altro fatto grave ci ha ancora più motivato nella strada intrapresa. Il 14 novembre, alle 4 del pomeriggio, di nuovo in piazza Sanità, piena di gente, due giovanotti in moto, sparando all’impazzata, hanno colpito uno dei boss della droga del rione, Pierino Esposito (padre di Ciro, ventunenne, ammazzato il 6 gennaio 2015). Ferito, è caduto a terra, ma i killer lo hanno raggiunto e gli hano sparato un colpo alla nuca. Sentiti i colpi, ci siamo precipitati in piazza e ci siamo trovati davanti a un’altra tragedia. Ho coperto il corpo di Pierino con un lenzuolo. Nella sparatoria, un altro giovane che stava lavorando, Giovanni, si era beccato una pallottola in pancia. È stato portato subito all’ospedale ed è salvo per puro miracolo, ma non potrà ritornare a lavorare. Un’altra tragedia familiare: Giovanni è sposato, ha un bimbo di otto anni.

Due giorni dopo questo tragico evento, abbiamo vissuto un momento forte, programmato da tempo, che ci ha dato forza e coraggio per continuare il cammino: il Patto delle Catacombe. Il 16 novembre infatti, molti sacerdoti, religiosi e laici impegnati di Napoli e fuori, sono venuti alle Catacombe di S. Gennaro dei Poveri, situate nel Rione Sanità, per pregare e firmare un documento di impegni seri per far sbocciare una Chiesa povera e dei poveri. In quella stessa data, cinquant’anni fa, circa 50 vescovi che partecipavano al Concilio (tra i quali il vescovo Luigi Bettazzi, presente con noi quella sera) erano scesi nelle catacombe di S. Domitilla a Roma impegnandosi ad uno stile di vita povero. Noi a Napoli abbiamo riformulato quell’antico Patto delle Catacombe per risvegliare in questa metropoli la fame e la sete di una Chiesa povera capace così di camminare con gli impoveriti, gli “scarti” del sistema. «Ci impegniamo, in solidarietà con i poveri – così recita uno degli impegni – a rimettere in discussione il nostro sistema economico-finanziario, i cui effetti devastanti tocchiamo con mano in questo Sud così martoriato e impoverito, sostenendo in maniera nonviolenta nell’azione pastorale, i movimenti popolari che si impegnano a favore dei diritti fondamentali: lavoro, casa, terra!» (www.catacombedisangennaro.org). Quella splendida serata ci ha rafforzato, continuando con più gioia ad accompagnare questo popolo emarginato di Napoli, che tenta di alzare la testa.

Negli incontri con i preti abbiamo lentamente focalizzato i bisogni più urgenti della nostra gente, sempre più emarginata. In primo luogo quelli della scuola pubblica che ha bisogno di essere potenziata in termini qualitativi e quantitativi, una scuola di qualità, a tempo pieno fino a sera. È questo il vero bastione contro le camorre. Poi la sicurezza, non solo sulle strade (vigili, presidi di polizia), ma anche sicurezza sociale con serie politiche per gli esclusi, per gli “scarti” della società. Infine un’attenzione particolare ai giovani (il 70% dei nostri giovani è disoccupato!) con inedite e nuove possibilità di lavoro.

In questi incontri, come preti, abbiamo anche maturato l’idea che non potevamo essere capopopolo o preti anticlan, ma semplicemente camminare con un popolo che aveva deciso di reagire. La lettera che abbiamo poi scritto al governo, porta infatti il titolo “Un popolo in cammino”. È quanto ci ha incoraggiato a fare papa Francesco nei due discorsi ai movimenti popolari. Su questo documento si sono ritrovate le realtà di base napoletane, dai movimenti studenteschi a Libera, dai centri sociali ai comitati delle periferie di Napoli. È con questo coordinamento che abbiamo deciso la manifestazione del 5 dicembre. Quel giorno si sono viste scendere in piazza Dante e marciare fino a piazza Plebiscito 7-8mila persone, accompagnate da una cinquantina di preti dietro un grande striscione: “Un popolo in cammino, per la giustizia sociale, contro le camorre”. Era la prima volta che i preti di tre zone a rischio della città scendevano a fianco della loro gente. Con una splendida giornata di sole è stata una gioia marciare per il centro di Napoli fino alla Prefettura, gridando: “No alle Camorre”, ma anche chiedendo giustizia per il popolo che vive nelle periferie. Come piccolo gruppo siamo saliti poi dal Prefetto per consegnargli la lettera “Un popolo in cammino”, firmata dai parroci delle periferie e dalle organizzazioni civili. Il Prefetto, che ha riconosciuto che a Napoli si vive una “bomba sociale”, ha promesso di inviare la lettera al Consiglio dei Ministri per chiedere un intervento strutturale del governo, soprattutto per la scuola, la sicurezza e i giovani. Ci ha anche promesso una risposta del governo entro fine gennaio. Nel frattempo abbiamo deciso di preparare un’assemblea cittadina per il 30 gennaio nella Chiesa S. Maria alla Sanità.

Un cammino, il nostro, che continua ad essere funestato dal sangue. Il 31 dicembre è stato ucciso a Forcella, un altro rione a rischio del centro, un altro giovane, Maikol, padre di due bimbi, mentre aspettava che il fratello terminasse il suo lavoro da barista. Un innocente, scambiato per Luigi Di Rupo, un pregiudicato che è stato poi ucciso il 5 gennaio in un negozio. È un massacro: lo scorso anno a Napoli ci sono stati 52 omicidi in questa faida senza fine per mano delle camorre.

Noi siamo decisi a camminare con questo nostro popolo “scartato” dalla vita che ci ha donato Gesù, perché avessimo vita in abbondanza. «Queste radicali verità della fede diventano realmente vere – diceva il vescovo, martire del Salvador, mons. Oscar Romero – quando la Chiesa si inserisce nel cuore della vita e della morte del suo popolo. Si presenta dunque alla Chiesa, come a ogni essere umano, l’opzione fondamentale per la sua fede: essere in favore della vita o della morte. Vediamo con grande chiarezza che, in questo, la neutralità è impossibile. O serviamo la vita del popolo o siamo complici della sua morte. E qui si dà la mediazione storica dell’aspetto fondamentale nella fede: o crediamo in un Dio di vita o serviamo gli idoli di morte». È questa la nostra missione oggi al  Rione Sanità, in questa Napoli “malamente”, che ha tanta voglia di vivere. 

Alex Zanotelli, missionario comboniano a Napoli

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