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Il nostro prossimo: il discorso finale del moderatore al Sinodo valdo-metodista

Il nostro prossimo: il discorso finale del moderatore al Sinodo valdo-metodista

Pubblichiamo il discorso finale tenuto al Sinodo dal moderatore della Tavola valdese e metodista, il pastore Eugenio bernardini. Il discorso si trova sul n. 53 del settimanale Riforma, da cui lo riprendiamo

 

Questo Sinodo è iniziato domenica scorsa con due azioni di preghiera e solidarietà: verso i migranti e verso le vittime e gli sfollati di Genova. Nessuna priorità in base alla nazionalità, l’etnia, l’appartenenza identitaria ma priorità solo in base al bisogno, priorità al prossimo che bussa alla nostra porta. Chiunque egli o ella sia. Perché il prossimo non ce lo scegliamo noi, come insegna Gesù a chi gli chiede chi sia il nostro

prossimo (Luca 10, 29) magari aspettandosi una tabella restrittiva (...) perché il pensiero comune

che abbiamo è: mica possiamo aiutare tutti! Gesù a questa domanda risponde in modo sorprendente: il prossimo non è definibile da una tabella, lo incontri sulla tua strada, anche quando meno te

l’aspetti; può capitare a te di essere «il prossimo bisognoso di aiuto» e, quando sarai aiutato, maga

ri da quello che oggi escludi, capirai perché non è possibile, e non è bene, definire il prossimo secondo una tabella restrittiva. Questa è la verità dell’Evangelo, care sorelle e cari fratelli, e chi dichiara di attenersi a esso ma poi propone una solidarietà limitata alle tabelle restrittive, si giudica da sé. Lo abbiamo dichiarato esplicitamente anche negli ultimi giorni e i giornali lo hanno ben capito e comunicato: ricordo il manifesto della Fcei sull’accoglienza che il nostro Sinodo ha fatto proprio, la dichiarazione della Csd Pari dignità, senza distinzioni e il suo bel comunicato sul caso della nave Diciotti,

la predicazione del culto di apertura basata, nei modi e nei contenuti, sulla classica teologia politica protestante di cui andiamo giustamente fieri. Su questa comprensione dell’Evangelo e di chi sia

il mio/nostro prossimo stiamo registrando anche

una straordinaria convergenza ecumenica: dalla

Chiesa cattolica alle chiese protestanti. Sia nei progetti concreti di servizio al mondo sia nell’annuncio della grazia e dell’agape di Cristo. Papa Francesco, nel suo messaggio augurale al nostro Sinodo, ci ha scritto: «Siamo chiamati a spenderci nell’annuncio di Gesù, che sarà credibile se sarà testimoniato nella vita e vissuto nella carità, in particolare verso i tanti Lazzaro che oggi bussano

alla nostra porta. Infatti, servendo l’uomo di oggi, difendendo la dignità dei più deboli e promuovendo la giustizia e la pace, diventiamo insieme operatori di quella pace che il Signore ha annunciato a Pasqua (Gv 20, 19) e ci ha lasciato in eredità». E con il presidente della Chiesa evangelica tede-

sca dell’Hessen-Nassau, Volker Jung, abbiamo dichiarato insieme: «L’Europa perde la sua anima quando valori come il rispetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza,

lo stato di diritto e la difesa dei diritti umani sono sempre più messi in discussione».

La questione così urgente di comprendere chi sia il mio prossimo oggi si coniuga urgentemente con

un’altra questione, quella della libertà. Il teologo tedesco Jürgen Moltmann ha detto: «Perché sono

tanto volentieri protestante? Credo che sia a motivo della libertà: libertà davanti a Dio nella fede, libertà della religione nei confronti dello Stato, libertà della coscienza nei confronti della chiesa. [...] Nella

società del futuro, il destino del protestantesimo e il destino della libertà formano un unico e comune destino. Dove vi è libertà, lì è presente il protestantesimo. Dove la libertà viene meno, anche il protestantesimo scompare (Religione della libertà, Morcelliana, p. 13s). In effetti, la Riforma è stata la grande scoperta della

libertà del cristiano. Della libertà prima di tutto dai «guardiani del sabato», perché «Il sabato è stato

fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (Mc. 2,27), ma anche della libertà nei confronti del potere

temporale che la chiesa non deve esercitare ma al quale ha il dovere di ricordare che – per i credenti

– c’è Qualcuno a cui tutti devono rendere conto e comunque ci sono dei principi di giustizia che nessuno si può permettere di calpestare, neppure chi governa le nazioni. La libertà del cristiano e della cristiana, e conseguentemente la libertà della chiesa, è un bene prezioso che deve essere preservato prima di tutto dai cristiani e dalla loro espressione comunitaria che è la chiesa. È il tema che lo scorso anno, anniversario della Riforma, ha costantemente condotto la nostra riflessione teologica e le nostre manifestazioni e dichiarazioni pubbliche.

Noi siamo una chiesa, parliamo come una chiesa, agiamo come una chiesa. E una chiesa è, per definizione, chiamata a libertà (Galati 5, 13). Una chiesa libera non è una chiesa estranea alla società civile o costituzionalmente indifferente rispetto allo Stato. Vale per tutte le chiese, ma vorrei dire che vale particolarmente per noi valdesi e metodisti che abbiamo voluto l’Italia unita, che abbiamo voluto

l’Italia democratica in cui i diritti, specie dei più deboli, siano protetti, e i doveri siano uguali per tutti. (...). Valdesi e metodisti hanno a cuore l’Italia e l’Europa, il destino morale e civile dell’Italia e dell’Europa. Nel passato, per esempio, abbiamo di feso la libertà religiosa per tutti e non solo per noi, ricordando che io sono libero se lo è anche l’altro.

E oggi ricordiamo che se muoiono i diritti, subito dopo muoiono le persone.

«Le parole sono pietre», diciamo spesso, e le parole pubbliche sono macigni. Un’espressione che è anche

il titolo del reportage dello scrittore e pittore Carlo Levi su tre viaggi compiuti in Sicilia tra il 1952 e il

1955. Dopo la descrizione dolorosa della condizione dei contadini della Lucania di Cristo sì è fermato a Eboli, lo sguardo di Levi si sofferma sull’estrema miseria dei contadini siciliani, una terra dove è difficile far applicare quelle leggi che lo Stato ha approvato per la redistribuzione della terra, per

migliorare le condizioni di lavoro, per applicare i diritti che dovrebbero valere per tutti, ma che in quelle terre devono sottostare ai privilegi dei potenti. La scrittura di Levi è dura come dura è la condizione di quei diseredati, e a un certo punto

del suo racconto compare una donna, Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, un contadi-

no ribelle assassinato dalla mafia perché fondatore, a Sciara (Palermo), nel 1951, della sezione del Parti-

to socialista e della Camera del lavoro. (...) Le parole sono pietre, non passano invano, restano, colpiscono. Ma, attenzione, possono colpire perché svelano, denunciano ciò che si vuole tenere

nascosto: «Ma egli [Gesù] rispose: “Vi dico che se costoro (i discepoli) tacciono, le pietre grideranno”» (Luca 19, 40); oppure, al contrario, possono colpire perché vengono lanciate per nascondere ciò che rischia di essere svelato. E così si creano ad arte capri espiatori e si propagandano giudizi sommari: «Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!» (Isaia 5, 20); «Io vi dico che di ogni paro la oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato» (Matteo 12, 36-37). Le nostre parole, le parole della chiesa, devono essere e re stare espressione dell’Evangelo di grazia e liberazione di Cristo, espressione di una cultura capace di includere, proteggere, promuovere e integrare soprattutto chi è più esposto, umiliato, calpestato. Chiunque esso o ella sia.

In questo Sinodo abbiamo anche parlato dello stato di salute della nostra chiesa. Delle nostre fragilità

e infedeltà, che sono molte, e anche delle nostre esperienze più positive e incoraggianti, che sono

meno, ma che non vanno sottovalutate. Abbiamo presentato strumenti nuovi di analisi come il Bilancio sociale e l’indagine sociologica. Abbiamo riconosciuto che «le valutazioni numeriche sono

insufficienti quando si debbano considerare valori spirituali» (Henry Carter, 1911, pastore metodista);

ma anche che «i dati statistici ci aiutano a capire qualcosa di ciò che siamo, ... di come siamo cambiati, di come stiamo cambiando e, almeno in certa misura, di che cosa stiamo facendo» (Chiesa metodista inglese, 2015). Ecco, questo è il nostro approccio protestante: realismo da una parte, volontà di affrontare la situazione; ma, d’altra parte, anche

speranza di poter invertire la tendenza alla «stabile decrescita» (numerica e spirituale). Nella consapevolezza che «Se il SIGNORE non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori; se il SIGNORE non protegge la città, invano vegliano le guardie» (Salmo 127, 1). Sì, giusto, la nostra fatica è vana senza l’aiuto del Signore, ma la nostra «fatica» nella missione (Rom. 16, 12; I Tim. 5, 17) ci deve essere. E nonostante la stanchezza che oggi sembra colpire anche i più forti che «vacillano e cadono» (...).

E infine, concludendo, permettetemi di esprimere una parola di gratitudine a Dio per il servizio che tante sorelle e tanti fratelli continuano a donare alla missione della nostra Chiesa e per il sostegno e la comprensione che ricevono dalle loro famiglie: considero tutto ciò un miracolo con cui il Signore

ci benedice. Vorrei unire tutte queste persone nel ringraziamento che rivolgo a chi lascia il servizio

in Tavola dopo tanti anni: il past. Jens Hansen. Che il Signore lo benedica, insieme alla moglie Patrizia.

E grazie alla diacona Alessandra Trotta che inizia oggi – per volontà del Sinodo e per lei in modo forse inatteso – questo servizio. Che il Signore ci benedica. Che il Signore benedica la sua chiesa, sparsa per il mondo e in molteplici forme e denominazioni.  

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