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"Il carcere può cambiare?"

Sul numero di Settembre il mensile Confronti si occupa del tema delle carceri, affidando una riflessione a Maria Pia Giuffrida (Presidente dell’Associazione Spondé Onlus, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria). Il suo intervento parte dalla domanda (che è anche il titolo dell'articolo) "Il carcere può cambiare?". «È una domanda, questa, a cui ho cercato di dare una risposta dal lontano 1979, anno in cui entravo nell’Amministrazione penitenziaria».

Si parte dal livello organizzativo. «Il piano delle risorse umane ha visto, in particolare nell’ultimo decennio, un mancato investimento qualitativo e quantitativo sui quadri dirigenziali (dirigenti di Istituto e di Uepe), un impoverimento generazionale degli organici degli operatori del trattamento (educatori e assistenti sociali), un ricambio degli operatori di polizia penitenziaria di tutti i gradi e livelli funzionali. Sembra che l’attenzione dell’amministrazione sia stata spesso più rivolta alle politiche del personale che alla gestione dei compiti istituzionali legati all’attuazione del dettato normativo nella sua interezza, determinando peraltro una spaccatura tra le diverse categorie diversamente toccate da riforme e da ricadute economiche». C'è tra gli operatori carcerai una «perdita complessiva e diffusa di significato del proprio lavoro, di “ignoranza” di ritorno sull’ordinamento penitenziario che fa vivere la quotidianità come adempimento svuotato di qualsiasi contenuto valoriale.

È diffuso un sentimento di inevitabilità che ha portato sempre più gli operatori ad atteggiamenti di rinuncia. Questo è vero in particolare per gli operatori del trattamento (educatori ed assistenti sociali) che teorizzano ormai spesso l’impossibilità di dar seguito alla norma penitenziaria; questo è vero per la maggior parte dei direttori/dirigenti che ormai presi dalla corsa alla managerialità, hanno completamente perso di vista l’importanza del loro ruolo di impulso, di coordinamento e di garanzia della legalità nell’esecuzione della pena».

Giuffrida passa poi ad analizzare la situazione della popolazione in esecuzione di pena in condizione detentiva o in misura alternativa. In questo caso, «le statistiche sono sempre allarmanti. Le percentuali di stranieri (che peraltro non accedono ai benefici per carenze personali) sono elevate, le condizioni di vita dei detenuti sono oggetto di denunce, gli spazi detentivi spesso in contrasto con i diritti umani, gli spazi di socialità spesso inesistenti, la sorveglianza dinamica accusa il colpo delle difficoltà gestionali e degli incalzanti ribaltamenti delle logiche politiche, le offerte trattamentali sono sparute e spesso coincidenti solo con offerte di intrattenimento.

Quello che balza all’occhio è l’ozio “involontario”, la passivizzazione e l’infantilizzazione della persona detenuta, la paura e la disperazione che sfociano spesso in atti di autolesionismo, il silenzio e il rumore, i piccoli e grandi spazi di potere, i privilegi e i provvedimenti disciplinari: l’irragionevolezza in altri termini di un sistema che contiene e “insegna” un “buon comportamento penitenziario”, quel comportamento che eviti episodi che possano diventare oggetto di provvedimenti disciplinari di diverso peso, ovvero quel buon comportamento che favorisca l’ottenimento dei benefici di legge. Si tratta di una sorta di incentivazione quotidiana alla strumentalizzazione in un mondo che ha creato innumerevoli rituali burocratici e massificanti attraverso cui far scorrere “il tempo della pena” di persone, di uomini e donne, affidate al sistema dell’esecuzione della pena detentiva o in misura alternativa».

«Queste riflessioni appariranno certamente severe e distruttive ma portano a mettere a fuoco il piano fondamentale su cui è necessario – a mio parere – intervenire: la responsabilità. Il tema della responsabilità ci porta a “cambiare occhiali” e riconsiderare il piano culturale, il sistema dei valori, la riscoperta di significato e di senso, la centralità dell’uomo, la ri-valorizzazione delle relazioni». «Responsabilità dunque dell’amministrazione penitenziaria e per essa di tutti gli operatori che devono assumere su di sé il coraggio di sviluppare “il dover fare trattamento”, di non ridurre il loro ruolo ad aspetti formali, burocratici e auto garantisti, il coraggio di dare senso al proprio lavoro in linea con la Costituzione del nostro Paese e all’Ordinamento penitenziario e di dare rinnovato significato alle parole». In questo senso, «la conversione culturale degli operatori penitenziari è dunque fondamentale: non si tratta più di “contenere”, osservare ai fini della valutazione di un buon comportamento (o meno), non si tratta più soltanto di “aiutare” il detenuto – attraverso un percorso trattamentale – di rientrare nell’ambito socio-familiare di appartenenza: si tratta di sentirsi “responsabili” dell’opera di sostegno di ciascun detenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una responsabilità sociale e collettiva, si tratta di ricollocare la vittima di reato al centro di ogni riflessione, si tratta di andare oltre la norma infranta verso il danno “irreparabile” provocato nell’esistenza di altri soggetti».

 

 

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