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Il ritorno del razzismo scientifico

Il ritorno del razzismo scientifico

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 13/04/2019

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Le razze umane non esistono. Dovrebbe bastare questo a mettere fine all’annosa questione sulle presunte differenze tra bianchi e neri: dal punto di vista scientifico, non è possibile parlare di razze nella nostra specie. In biologia esistono diversi modi di definire il termine “razza”, ma dicono essenzialmente tutti la stessa cosa: se due popolazioni appartenenti alla stessa specie sono molto diverse geneticamente, mentre all’interno di ognuna delle singole popolazioni le differenze genetiche sono limitate, allora ci troviamo di fronte a due razze diverse. Quale sia la percentuale specifica di differenze da raggiungere perché si possa tracciare una linea definita tra due popolazioni dipende da definizione a definizione, ma per la nostra specie la cosa ha poca importanza. Nell’essere umano, infatti, gran parte della diversità genetica, circa l’85%, si può trovare all’interno delle popolazioni, mentre un 10% circa separa geneticamente le diverse popolazioni. Questi risultati sono emersi per la prima volta da uno studio seminale del genetista Richard Lewontin nel 1972 e da allora il risultato è stato largamente confermato, seppure con le dovute variazioni, da numerose ricerche sulle popolazioni umane.

C’è poco da discutere: non siamo abbastanza diversi tra noi per poter parlare di razze dal punto di vista biologico e la cosa non dovrebbe nemmeno sorprenderci se consideriamo la propensione della nostra specie a viaggiare e rimescolarsi nel corso della storia. La questione delle razze umane, una delle più accese tra gli scienziati del secolo scorso, è poco alla volta sparita dalle aule accademiche nello stesso modo in cui sono sparite l’astrologia o la rabdomanzia. Secondo un sondaggio effettuato nel 2016, la stragrande maggioranza degli antropologi di professione (86%) ritiene che la specie umana non si possa dividere in razze e il 71% ritiene che lo stesso termine “razza” non debba essere più usato quando si parla di genetica delle popolazioni umane. La parola “razza” è di fatto già stata ritirata dal linguaggio di chi fa ricerca sulla nostra specie, sostituita dal più tollerato “etnia” o “popolazione”. Sopravvive, però, ancora in campo medico e forense, soprattutto negli USA, dove i medici usano ancora classificazioni come “nero/asiatico/caucasico” per aiutarsi nella diagnosi e nel trattamento dei loro pazienti. Tuttavia, anche questo metodo è controverso e probabilmente l’utilizzo del termine “razza” in questo contesto non è altro che una povera approssimazione di un insieme di fattori ambientali, genetici, ereditari, geografici e soprattutto socioeconomici che contribuiscono alle condizioni del paziente. Con la medicina moderna, che diventa sempre più personalizzata, è legittimo prevedere che anche in questo caso l’approccio razziale abbia i giorni contati.

(...). Parafrasando il recentemente scomparso Luigi Luca Cavalli Sforza, la questione delle razze umane è un esercizio futile e infantile. Che ha portato sempre dentro di sé un bias da cui è difficile scappare: quando si vogliono creare delle categorie per distinguere gli esseri umani in base a delle caratteristiche arbitrarie, è facile poi cadere nella tentazione di creare anche delle gerarchie, delle gerarchie delle razze diverse. E mettere in cima, inevitabilmente, la propria.

Ma, se la scienza ha davvero messo una pietra sopra la questione, perché si parla ancora di razze? Nonostante il palese consenso scientifico, c’è chi ancora usa il termine per parlare di bianchi e colorati e delle loro presunte differenze biologiche innate e, soprattutto, delle caratteristiche poco desiderabili di determinate razze. È pseudoscienza e in quanto tale usa tutti gli espedienti: teorie screditate, linguaggio che scimmiotta quello accademico, fonti di dubbia provenienza, dati male interpretati o falsificati. È una pseudoscienza, però, incredibilmente popolare, che ha portato lo scontro sul piano della politica e che ha trovato nella nuova ondata reazionaria che ha investito il mondo occidentale un terreno incredibilmente fertile. Si può dire che il razzismo scientifico non si sia mai veramente arreso: ha cambiato nome e metodi ed è ricomparso sulla scena non appena le condizioni lo hanno permesso.

Il fascino del proibito

Il 22 aprile 2017 il famoso neuroscienziato/blogger Sam Harris ha ospitato nella sua trasmissione podcast intitolata “Forbidden Knowledge”, conoscenza proibita, l’altrettanto famoso, o forse sarebbe meglio dire famigerato, Charles Murray, opinionista ed autore americano. Harris, che è un ateo militante ed è stato accusato più volte di islamofobia, non è estraneo a posizioni controverse dal punto di vista scientifico, ma il suo ospite ha assunto forse la più controversa di tutte: l’intelligenza è una questione di razza, innata, e serve a spiegare le differenze socioeconomiche tra le varie etnie. (...).

Un fisico moderno che si rispetti non si sognerebbe di invitare un sostenitore delle teorie tolemaiche alla sua trasmissione podcast per sentire cos’ha da dire, ma a chi promuove il razzismo scientifico è ancora, a quanto pare, riservato un trattamento di favore. Harris non ha infatti criticato in nessun modo le tesi di Murray, presentandole invece come fatti comprovati che non è possibile ignorare, ma si è concentrato invece sulle critiche che aveva subito (Murray era stato aspramente contestato durante un seminario in college americano qualche mese prima, una protesta sfociata nella violenza), tratteggiandolo come una figura vittima dell’accademia mainstream, troppo impaurita dal politicamente scorretto per poter guardare in faccia la realtà. Non è una questione di razzismo, dice Harris, è una questione di libertà di parola, e la libertà di parola di Murray, secondo lui, è stata violata.

Il caso di Murray è un esempio perfetto perché ha dentro di sé tutti gli elementi che hanno portato al riemergere del razzismo scientifico. Abbiamo un intellettuale isolato, screditato dall’accademia e contestato nelle Università, ma adorato da movimenti politici di stampo razzista, che si erge a voce fuori dal coro per proporre teorie superatissime, basandosi su dati dubbi o male interpretati e che pronuncia “verità scomode” nel nome della libertà di espressione. Non è colpa mia se esistono delle razze migliori o peggiori e se i bianchi sono, guarda caso, tra i superiori: lo dice la scienza. Potete tapparvi le orecchie quanto vi pare ma i neri hanno un quoziente intellettivo più basso ed è per questo che finiscono in galera più dei bianchi: lo dicono le statistiche. Infatti i razzisti scientifici non si definiscono come tali: preferiscono il termine race realism, il realismo delle razze, attribuendo le differenze socioeconomiche e culturali legate alle diverse etnie ad innate caratteristiche genetiche che vengono ignorate solo perché sarebbe politicamente scorretto parlarne. Teorie ormai screditate dalla scienza ufficiale, invece che sparire, vengono riproposte con una nuova mano di vernice per dare loro un credito che non hanno (...): più recentemente, i razzisti scientifici hanno capito che anche il termine race realism è forse troppo politicamente carico ed hanno cominciato a usarne un altro, human biodiversity, o HBD. Questa volta il termine “razza” non è nemmeno incluso e l’opinione pubblica, normalmente, considera la parola “biodiversità” come qualcosa di positivo. Grazie a un’operazione di marketing, i razzisti scientifici possono rivendere le loro teorie al grande pubblico senza che l’associazione di idee col razzismo sia immediata.

Sono tutte strategie ampiamente sperimentate e molto efficaci. Uno scienziato riesce a cogliere facilmente l’inganno e può quindi dimostrare come le teorie del razzismo scientifico siano erronee. Ma ai razzisti scientifici non interessa parlare con gli scienziati. Hanno un loro pubblico ben definito e sono diventati molto bravi a raggiungerlo. (...).

L’università della vita

Se Murray si può considerare responsabile di aver rivitalizzato teorie pseudoscientifiche che sarebbero dovute sparire tempo addietro, è a persone come Steve Sailer che si deve probabilmente dare merito per la loro rinnovata popolarità, soprattutto nel mondo del web. Sailer è un blogger americano e opinionista presso numerose testate conservatrici online. A differenza di Murray e co., Sailer non ha alcun tipo di credenziale scientifica, ma questo non gli ha impedito di parlare di quoziente intellettivo, razza, genetica e eugenetica ed altre pseudo teorie razziste sin dai primi anni 2000. È infatti Sailer ad aver coniato il termine human biodiversity, che come abbiamo visto non è altro che il vecchio razzismo scientifico con un abito nuovo. Fan di Murray, Sailer ha spesso citato le sue opere per legittimare le sue posizioni anti-immigrazione.

Sailer fa parte di una categoria molto in voga nella galassia della nuova destra reazionaria: quella dei blogger, youtuber ed altre personalità non accademiche che si definiscono scienziati pur non essendolo. Raramente hanno una laurea e se ce l’hanno è di solito in materie che poco hanno a che fare con la biologia. A differenza dei razzisti scientifici classici, che per ruolo accademico tentavano comunque di mantenere una certa neutralità riguardo alle motivazioni politiche delle loro teorie, questi scienziati autodichiarati giocano a carte scoperte: sono ultraconservatori e lo sono perché la scienza dà ragione alle loro posizioni. Poco importa se in realtà non è vero: la “scienza” su cui questi si basano è fatta di dati frammentari, fraintesi o completamente falsati. (...). Nel resto del tempo, la scienza mainstream viene discussa solo per essere criticata in quanto ambiente elitario che non vuole guardare in faccia la realtà delle loro conclusioni. Il fatto che non abbiano qualifiche è quasi visto come un vanto. Tanto basta a creare un’aura di autorità agli occhi degli altri utenti online: un utente poco informato verrà esposto a teorie senza fondamento da parte di qualcuno percepito come competente, mentre un razzista vedrà in questo una conferma dei propri pregiudizi. (...).

Internet è un marasma difficile da analizzare, e capire chi c’è davvero all’origine della catena è praticamente im possibile. Si possono però individuare degli elementi comuni, che ci aiutano a capire se ci troviamo di fronte a del razzismo scientifico sotto mentite spoglie. Ci sono ripetuti appelli alle differenze innate tra razze, a politiche eugenetiche, al controllo dell’immigrazione e agli scontri tra culture. Ma un elemento, su tutti, domina: l’ossessione dei razzisti scientifici per il quoziente intellettivo.

Tirate fuori i calibri

L’idea di poter quantificare una cosa sfuggente come l’intelligenza umana tramite dei test standardizzati esiste sotto varie forme dai primi anni del Novecento, ma già prima di tale epoca la scienza aveva cercato di misurare l’intelletto con svariati sistemi. Non avendo molto su cui basarsi (dopotutto, lo stesso concetto di “intelligenza” non è ben definibile, men che meno quella umana, che presenta caratteristiche sociali, artistiche e di astrazione molto peculiari) gli scienziati dell’epoca si sono occupati di una delle poche cose che effettivamente si potessero misurare: la forma e le dimensioni del cranio e, di conseguenza, del cervello. Misurazioni effettuate nel diciannovesimo secolo mostravano come i bianchi in media avessero dei cervelli più grandi rispetto ai nativi americani o ai neri, arrivando ancora una volta alla conclusione che esistevano delle differenze razziali nelle dimensioni del cervello e nelle capacità intellettive. (...). È doveroso anche ricordare come queste differenze misurate siano minime in percentuale rispetto alle dimensioni totali del cervello, al punto da non essere considerate significative dal punto di vista statistico, e che non sia ancora stata trovata una relazione diretta tra volume cranico e intelligenza. Se così fosse, la specie più intelligente sul pianeta terra sarebbe quella dei capodogli, che hanno un cervello che pesa otto chili rispetto ai miseri, in proporzione, 1,4 chili del cervello umano medio. Non sempre, quindi, le dimensioni contano. (...).

I test attualmente utilizzati misurano abilità come padronanza del lessico, capacità di lettura, comprensione di analogie, logica matematica… È innegabile che abbiano un’utilità per determinare come un individuo se la cavi di fronte a simili problemi, in particolare se abbiamo di fronte qualcuno che ha delle disabilità cognitive e ritardi dell’apprendimento, ma è una reale misura delle sue complete capacità mentali? Stiamo parlando di intelligenza? Tutta l’intelligenza, anche quella pratica, quella sociale, quella artistica? Non tutti sono d’accordo, come ad esempio lo psicologo e statistico Peter Schönemann, che considera falsato l’intero fondamento del sistema di misurazione. Per non parlare di un altro problema che i test sul quoziente intellettivo hanno da sempre presentato: storicamente creati da individui bianchi occidentali, sono molto suscettibili a bias culturali e razziali. Quando si vuole determinare una serie di capacità cognitive desiderabili, è facile essere portati a pensare che le proprie siano “quelle giuste”. Forse l’intelligenza è troppo varia e complessa per essere misurata con affidabilità da simili test. Secondo Alfred Binet, psicologo francese a cui è attribuita proprio la paternità di uno dei primi test del quoziente intellettivo, l’approccio dovrebbe essere qualitativo, più che quantitativo; inoltre, lo sviluppo intellettivo procede in maniera variabile, dipende dall’ambiente di crescita e non solo dai geni, e andrebbe quindi misurato tra individui che hanno un simile background. Se uno degli inventori dei test sul quoziente intellettivo era arrivato già nei primi anni del ‘900 alla conclusione che le condizioni sociali sono fattori importanti non si capisce quindi come mai il quoziente intellettivo sia ancora usato al giorno d’oggi come argomentazione per declamare l’esistenza di presunte differenze razziali innate. (...).

Se una persona cresce in condizioni di povertà rispetto alla media, la sua istruzione e capacità cognitive ne risentiranno, il che si traduce in un punteggio basso nei test. Punteggio che può però incrementare col miglioramento delle condizioni: è stato osservato come estendendo l’accesso a migliore istruzione o stimoli intellettuali ad individui in condizioni precedentemente disagiate, il punteggio migliora di molto, a volte in tempo brevissimo, andando a colmare il gap iniziale con la media. Il discrimine sembra essere dunque lo status sociale, che a volte corrisponde con le origini etniche per ragioni di contingenza storica.

Per i razzisti scientifici, e più in generale per gli scienziati di tendenze più deterministiche, le differenze tra quoziente intellettivo sono invece qualcosa di origine genetica, innata e dunque razziale. (...).

Che l’intelligenza sia anche una cosa di famiglia, e quindi influenzata dai geni, lo si sa da tempo, ma “famiglia” non è la stessa cosa di “razza”, così come “quoziente intellettivo” non è la stessa cosa di “intelligenza”. Dettagli che vengono convenientemente ignorati dai razzisti scientifici che si concentrano sugli elementi ereditari più che su quelli ambientali e socioeconomici (tra l’altro, un individuo che eredita i geni associati all’intelligenza dai genitori tenderà a ereditarne anche le condizioni socioeconomiche). (...).

La piaga delle rane

Abbiamo più volte già citato i seguaci del razzismo scientifico e dei suoi intellettuali di riferimento. È arrivato il momento di tracciare un profilo più approfondito della nuova destra reazionaria meglio conosciuta come alt-right, destra alternativa. Il termine si riferisce a gruppi non omogenei e non organizzati di individui di estrema destra, solitamente maschi molto giovani, che va dai conservatori più “classici” a neonazisti dichiarati. Originatosi nei forum di discussione anticonvenzionali su Internet negli USA, il fenomeno si è espanso in Europa e poi nel resto del mondo, colonizzando tutte le piattaforme social e passando di fatto nella cultura politica mainstream. (...).

Pur avendo una composizione internazionale molto eterogenea, il movimento alt-right ha delle figure di leadership di riferimento riconosciute, come il già citato etnonazionalista Richard Spencer, e perfino una sorta di “manifesto” condiviso, basato su tre punti fondamentali. Il primo è che “gli uomini sono sotto attacco”: l’alt-right rifiuta completamente il femminismo, visto come una degenerazione del ruolo biologico e sociale assegnato alla donna. Il secondo è che “il linguaggio è sotto attacco”, cioè la libertà di espressione è minacciata dal politicamente corretto, il che impedisce loro di esprimere idee discriminatorie e utilizzare insulti a sfondo razzista o sessista. Il terzo è che “la razza bianca è sotto attacco”, e cioè che le ondate migratorie nel mondo occidentale stanno contribuendo ad ammorbare la razza bianca mescolandola con razze inferiori, un piano orchestrato dalle élite “marxiste ed ebraiche” in un modo non dissimile dalla teoria del complotto del Piano Kalergi. Esaminare il primo punto richiederebbe interi trattati, ma è facile constatare come il secondo e il terzo punto, e cioè gli attacchi alla libertà di espressione e alla razza bianca, siano perfettamente compatibili con le teorie dei razzisti scientifici e con le loro manie di persecuzione di cui abbiamo già parlato. Infatti l’alt-right salta direttamente la parte dell’human biodiversity e dichiara apertamente di essere per il race realism: secondo le loro teorie, le razze esistono dal punto di vista biologico, presentano differenze che vanno al di là del colore della pelle e coinvolgono anche l’intelligenza e forma del cranio, rifiutano le conclusioni di Lewontin e della maggioranza dei genetisti sulla diversità delle popolazioni e pensano che le differenze tra performance scolastiche e tasso di criminalità non si spieghino con fattori socioeconomici, ma siano invece innate. (...).

È chiaro che un fenomeno così esteso e trasversale come l’alt-right non poteva rimanere confinato nella rete, e non è stato così. Perché è gente che va a votare e, quando vota, lo fa per il candidato più reazionario a disposizione. Una figura come quella di Donald Trump, anti-immigrazione e con opinioni al limite del razzismo esplicito, era perfetta per l’alt-right, che ha fatto quadrato intorno a lui con i propri sforzi propagandistici, e non sono pochi gli analisti che considerano significativo il loro contributo alla sua elezione. La vittoria relativamente inaspettata del nuovo presidente americano non ha fatto che rafforzare le convinzioni dell’alt-right, che ha così acquisito abbastanza sicurezza da non limitarsi a fare propaganda da dietro lo schermo di un computer, ma anche da scendere in piazza in massa: marce e manifestazioni che hanno infiammato gli USA, dove accanto ai simboli classici del movimento sono sventolate anche bandiere neonaziste e cappucci del Ku Klux Klan. Alle marce dell’alt-right sono corrisposte controproteste da parte di gruppi progressisti e antifascisti, alcune sono anche sfociate nel sangue. Nonostante le pratiche che ricordano in tutto e per tutto quelle dell’integralismo religioso, la politica statunitense che nell’alt-right ha trovato un bacino elettorale non ne ha preso le distanze, sminuendo i casi di violenza e di razzismo e arrivando addirittura a citare, ringraziare e promuovere il lavoro dei vari radicalizzatori. Dopo la vittoria di Trump, il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio anche in Europa, sostenendo di volta in volta candidati come Marie Le Pen, Viktor Orbán e Matteo Salvini. L’alt-right d’oltreoceano sembra aver preso molto in simpatia il leader leghista, e anche in Italia si sta assistendo ad una simile dinamica di radicalizzazione, con gruppi online che producono propaganda per il governo Lega-Cinque Stelle, applicando i metodi già sperimentati negli USA su scala nazionale, conditi dalla sempreverde retorica e simbologia mussoliniana. Stanno anche nascendo figure di riferimento dell’alt-right italiana: youtuber, blogger, “giornalisti” autodidatti, gestori di pagine social, che ancora una volta promuovono teorie razziste accreditate nel nome dei “fatti e della logica”. A volte vengono anche menzionati dagli stessi politici reazionari, ricevendo il loro endorsement a beneficio della reciproca popolarità. Tutto il mondo è paese.

Il nuovo manifesto della razza

Quando il 15 luglio del 1938, dieci scienziati italiani firmarono il Manifesto della Razza, dando il loro benestare ad una serie di leggi razziali responsabili della morte e della persecuzione dei cittadini di origine ebraica, non erano in isolamento. Il consesso scientifico di allora non era del tutto convinto che le razze esistessero, e che ce ne fossero di superiori, ma di certo i dieci firmatari non erano i soli accademici a sostenere che erano necessarie delle misure per difendere la razza italica. Nel migliore dei casi, consideravano i non-ariani come sfortunati, malati da poter “curare” dalla propria inferiorità. Nel peggiore dei casi, invocavano la vera e propria pulizia etnica tramite deportazioni, sterilizzazioni, sterminio. E non stiamo neanche parlando di figure di nicchia, voci fuori dal coro, professorucoli di poco conto: alcuni di loro erano direttori di istituto, accademici rispettati che al di là delle loro idee sulla razza, hanno portato contributi alla scienza italiana non indifferenti. Dopo la caduta del fascismo, nessuno di loro pagò il prezzo della adesione al manifesto, anzi furono tutti reintegrati nel sistema universitario e riabilitati all’insegnamento, divennero titolari di cattedre di rilievo, furono ricordati con targhe commemorative e nella toponomastica. (...).

Oggi, tra allarmismo per le ondate migratorie e continua propaganda razzista che viene condivisa a pioggia nonostante la comprovata falsità, ci troviamo di fronte ad una situazione simile. I razzisti scientifici non hanno bisogno di scrivere un nuovo manifesto che presenti al mondo le loro teorie, perché le loro teorie sono state già assorbite e diffuse da chi è ideologicamente e politicamente motivato ad essere razzista. L’esplosione delle sottoculture internet ha di certo accelerato il processo, ma non ha fatto altro che buttare acqua su un campo già da tempo seminato. Per molta gente, non siamo tutti uguali, e non dovremmo essere tutti uguali. (...).

Spetta quindi a chi alla scienza e all’umanità intera ci tiene davvero rimboccarsi le maniche per costruire un consenso opposto, un consenso che rifiuti del tutto l’idea che chi è diverso da me sia inferiore a me e che metta al centro dei propri sforzi scientifici, politici e sociali un’unica razza, quella umana.  

Parte inferiore del fronte di copertina del libro di Roberto Inchingolo et al., Il bias della razza, tratto dal sito di Durango Edizioni

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