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Il fenomeno migratorio in Italia, ieri e oggi

Il fenomeno migratorio in Italia, ieri e oggi

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 15/06/2019

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Nell’autunno del 1970, recatomi per sei anni prima a Bruxelles e poi a Duesseldorf come opertore tra i nostri connazionali all’estero, sentii per la prima volta parlare della regolarizzazione degli immigrati, per molti belgi inopportuna perché prima di spostarsi bisogna essere stati autorizzati dal Paese di destinazione. Questa incapacità di “decentrare” il proprio ragionamento – rendendosi conto delle ragioni che costringevano all’espatrio – che allora mi colpì profondamente, ha messo radici anche in Italia in questi ultimi 40 anni, non sempre andati per il verso giusto.

Il 1975 fu una data significativa. In quell’anno i rimpatri degli italiani (così come avveniva già dal 1972 per quelli che rientravano dall’Europa) prevalsero sugli espatri anche relativamente ai flussi d’oltreoceano. Inoltre, ci fu il varo da parte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro della Convenzione sulla tutela dei lavoratori migranti, ratificata dall’Italia nel 1981.

La prima legge sull’immigrazione venne approvata nel 1986 su iniziativa del democristiano Franco Foschi insieme ai parlamentari del Partito comunista e di quello socialista. Si arrivò a una maggioranza parlamentare del 90%, indice di una fondamentale predisposizione politica all’accoglienza, condivisa dal mondo sociale e da quello ecclesiale.

La seconda legge sull’immigrazione venne presentata dal socialista Claudio Martelli, vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel governo allora guidato da Giulio Andreotti. La proposta venne approvata definitivamente nel mese di febbraio del 1990 con una percentuale di adesionimun po’ più bassa, ma ancora molto significativa (i due terzi del totale). Nella “prima Repubblica”, quindi, moderati e progressisti ebbero la saggezza di non dividersi su un fenomeno sociale così importante come quello dell’immigrazione.

Gli anni ‘90, con l’inizio della “seconda Repubblica” furono, invece, quelli della contrapposizione e questo attegiamento si diffuse anche fra i moderati, su forte impulso della Lega Nord, che nel decreto legge del Governo Dini del 1995 (non convertito in legge) inserì misure fortemente restrittive. Quindi, insediatosi al governo Romano Prodi, nel 1998 venne approvata la “legge Turco-Napolitano”, diventata la struttura portante del Testo Unico sull’immigrazione. Quello fu un serio tentativo di passare dall’emergenza a una strategia organica, cercando di comporre programmazione, accoglienza e contrasto dei flussi irregolari, ricorrendo al coinvolgimento dei Paesi di origine. Già allora, pur in presenza di numeri contenuti, vi fu chi parlò di cedimento e di invasione straniera.

La prima decade del 2000, fatta eccezione per la parte intermedia, è stata maggiormente caratterizzata dagli interventi dello schieramento del centro-destra. La “legge Bossi-Fini” del 2002 non ha abolito la precedente normativa, pur inasprendola in diversi punti. Vennero toccati anche dei diritti inviolabili della persona e ciò provocò ripetutamente la censura della Corte Costituzionale. Quindi nel 2009, il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del ministro Maroni della Lega Nord si espose, in ragione delle sue restrizioni in materia di diritti, alle eccezioni di illegittimità costituzionale, e anche della Corte di giustizia dell’UE e della Corte europea dei diritti umani.

Questo periodo conobbe il più consistente aumento della presenza immigrata: da meno di 1,5 milioni a 4 milioni e 235mila. Inoltre, sia nel 2002 che nel 2009 vennero e approvati due provvedimenti di regolarizzazione (quella del 2002 fu la più ampia della serie con oltre 700mila domande). Le regolarizzazioni approvate in precedenza furono quattro (1986, 1990, 1995, 1998) e l’ultima è stata quella del Governo Monti nel 2012.

Ogni intervento legislativo nacque con l’ambizione di regolare così compiutamente i flussi da evitare nel futuro la formazione di sacche di irregolarità. Questo effetto non è stato mai raggiunto e ciò imporrebbe di chiedersi se gli stessi meccanismi di ingresso, soggiorno e inserimento occupazionale siano di per sè incentivanti dell’irregolarità. Ad esempio, al momento, non vengono annualmente fissate delle quote d’ingresso per lavoro, fatta eccezione per gli stagionali.

La seconda decade dell’attuale secolo si è distinta, rispetto a quelle precedenti, per aver posto all’attenzione le migrazioni per protezione internazionale. La figura del rifugiato era da tempo prevista, avendo l’Italia ratificato con tempestività la Convenzione di Ginevra del 1951. Prima, però, venivano accettati solo i profughi provenienti dai Paesi del blocco sovietico. Nel 1990 venne superata questa riserva geografica, ma, ciò nonostante, i richiedenti asilo si indirizzavano altrove. Anche gli sbarchi sulle coste italiane arrivavano a coinvolgerne tra 10mila e 20mila. La prima avvisaglia che gli sconvolgimenti politici avrebbero potuto gonfiare i flussi per motivi umanitari si ebbe nel 2011 in concomitanza con le “primavere arabe”, quando circa 50mila tunisini arrivarono in un’Italia impreparata ad accoglierli e in un’Europa pronta, invece, a rimandarli in Italia in quanto Paese di primo approdo.

Passati due anni di relativa tranquillità, l’incauta eliminazione del colonnello Gheddafi da parte della Francia e della Gran Bretagna gettò nel caos la Libia, una situazione che perdura tutt’oggi. E così in Italia sono aumentati gli sbarchi: 150mila nel 2014, 160mila nel 2015, 180mila nel 2016. Una riduzione drastica è avvenuta nell’ultima parte del 2017 (119mila in quell’anno) ed è proseguita nel 2018 (23mila). Probabilmente saranno ancora meno nel 2019. Prima la questione delle richieste d’asilo (di numero limitato) era poco dibattuta, mentre ora è diventata così preminente da far dimenticare che vi sono in Italia un po’ più di 5 milioni di cittadini stranieri e 1 milione e mezzo di cittadini stranieri che sono diventati italiani. Il concetto “integrazione” è scomparso dal dibattito politico e dalle iniziative governative. L’intercultura, pur menzionata nel Testo Unico sull’immigrazione, non è una necessità da tutti avvertita, pur restando indispensabile per favorire una fruttuosa convivenza – attualmente e ancor di più in prospettiva –, considerato che per ragioni demografiche gli immigrati sono destinati a crescere ancora notevolmente.

In questo periodo, detto della “terza Repubblica”, la questione all’ordine del giorno è quella dei richiedenti asilo, per i quali si ritiene indispensabile varare misure restrittive sul presupposto che “l’Italia ha già dato”. Pur senza misconoscere lo sforzo fatto dall’Italia nel periodo 2014-2017, le statistiche comparative a livello europeo evidenziano che per i richiedenti asilo e per i rifugiati l’Italia non ha fatto più di diversi altri Stati membri.

Che si tratti di immigrati o di si è poco sensibili e i numeri, spesso parziali, male interpretati o addirittura inesatti sono tutt’altro che un “mezzo oggettivo” per argomentare. Il ritornello “aiutiamoli a casa loro” non è affato credibile quando si considera che i fondi perla cooperazione allo sviluppo (già di per sé bassi e solo in misura ridotta utilizzati per i Paesi in difficoltà) sono stati fissati dalla legge finanziaria in diminuzione per il corrente triennio. Per giunta è stata praticata una tassa aggiuntiva dell’1,50% sui risparmi che gli immigrati inviano alle loro famiglie.

Sull’accoglienza dei richiedenti asilo non può che influire negativamente la riduzione della quota giornaliera messa a disposizione dei gestori delle piccole strutture (quelle più efficaci), costrette a ridurre le attività finalizzate all’integrazione linguistico- culturale, all’educazione civica, all’assistenza psicologica, e ad altre attività sociali.

Sfuggono i benefici assicurati dagli immigrati all’economia, all’occupazione, alla demografia. Si parla invece del pericolo che essi costituiscono per l’ordine pubblico e per la salvaguardia delle nostre tradizioni religiose: non solo non si tiene conto dei dati statistici ma neppure di quanto dice il papa che, secondo questi “cristiani”, non ha capito i termini della questione.

Bisogna guardare al passato e trarre lezione dagli sbagli fatti. Tra l’altro, anche il centrodestra ha le sue colpe rispetto alle norme europee, che ora giustamente si dovrebbero cambiare, a partire dal Regolamento di Dublino, che considera il primo Paese responsabile di tutte le persone sbarcate. Purtroppo, con tanta foga verbale si attacca la Commissione Europea e a volte anche il Parlamento Europeo, anziché essere d’aiuto a queste strutture per far valere le loro sensate proposte di riforma presso i vari governi.

In Italia si sta correndo il serio rischio di esaurire le residue riserve di solidarietà, anche se si continua a ripetere che la  popolazione italiana non è razzista. Si è di fronte a una grave mancanza di strategia. Gli immigrati e i rifugiati, una volta stabilitisi in Italia, sono una risorsa per il Paese, da utilizzare al meglio, e non un corpo estraneo. Se così stanno le cose, perché ripetere sempre e comunque “primi gli italiani”? Ne va della dignità di queste persone e anche dell’interesse del sistema Paese. Tra l’altro, bisognerebbe ricordare che agli emigrati italiani in Europa nel Dopoguerra è stata restituita la dignità grazie all’istituto giuridico della libera circolazione, che li ha equiparati, nei diritti, ai cittadini dello Stato membro ospitante.

La situazione è seria. Serve una medicina energica per consentire ai cittadini di superare l’allergia alle statistiche (quelle oggettive) e l’assuefazione al senso comune (che non è l’equivalente del buon senso) sotto l’impulso di campagne populiste xenofobe. Questi brevi cenni storici enfatizzano che gli orientamenti politici possono essere differenti, mentre la disponibilità all’accoglienza dovrebbe essere un denominatore comune. Il superamento dell’ideologia negativa delle migrazioni sarebbe anche un atto di coerenza con oltre un secolo e mezzo di storia degli italiani all’estero, che per se stessi hanno chiesto il trattamento che ora neghiamo agli immigrati, e cioè quello di essere considerati cittadini nello Stato che li ha accolti.

Da allora i decisori pubblici non hanno più previsto quote d’ingresso, salvo quelle per gli stagionali e la conversione del titolo di soggiorno di quelli già presenti in Italia (ad esempio, da studio in lavoro). Non sarebbe neppure possibile elevare le quote, perché ciò richiederebbe previamente l’approvazione di un documento triennale di programmazione come previsto dal Testo Unico. Non lo ho fatto neppure l’attuale governo, che conta su una solida maggioranza, perché ritiene di operare sotto il segno dell’emergenza.  

Franco Pittau è presidente onorario del Centro Studi e Ricerche Idos (www.dossierimmigrazione.it), già collaboratore di mons. Di Liegro e responsabile degli studi e della comunicazione della Caritas di Roma.  

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