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Sudan nella tempesta

Sudan nella tempesta

Tratto da: Adista Notizie n° 16 del 29/04/2023

Quante volte, sulla stuoia, nei campi profughi al confine tra Ciad e Sudan, sono rimasto a parlare per ore con i rifugiati del Darfur! Tra un sorso di the e un piatto di “ech”, la polenta di miglio, i racconti della loro terra, lungo il versante orientale del Sudan, devastata dalle incursioni dei “diavoli a cavallo”, i janjaweed. Paramilitari spietati che, dal 2003, al soldo del presidente Omar al-Bashir, hanno razziato villaggi, intascato l’oro delle miniere, represso la storica dissidenza della regione nei confronti del potere centrale, stuprato donne e rapito bambini.

Senza mai aver deposto le armi, i Janjaweed, si sono reinventati nel corso degli anni andando a costituire l’ossatura delle Forze di Intervento Rapido (Rsf), un corpo “speciale” dell’esercito incaricato delle operazioni “sporche” (sono loro gli autori del massacro di oltre 100 manifestanti il 3 giugno del 2019).

Dal 2013 li guida l’uomo più potente e ricco del Paese, capace di tenerlo in scacco: Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Originario proprio del Darfur e discendente di una famiglia di allevatori di cammelli, sotto copertura del suo gruppo, controlla le operazioni di estrazione dell’oro in Sudan in combutta con la Russia. Tra il 2011 e il 2020 ne sarebbero state estratte 629 tonnellate. Il 90% dei proventi di quelle entrate, 13.8 miliardi di dollari, non sarebbe però transitato dalle casse dello Stato, ma tra i loschi giri degli interessi militari in accordo con i paramilitari russi della Wagner.

Mentre una stretta cerchia si è così arricchita e armata a dismisura, il popolo sfiora la fame. Quando nel dicembre del 2018 il prezzo del pane triplica, alla gente non resta che la piazza. Per cinque lunghi mesi i manifestanti non mollano la presa finché l’11 aprile del 2019 riescono a far cadere il presidente-dittatore al-Bashir, al potere da 30 anni e ricercato dal Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità commessi proprio in Darfur.

L’intesa tra i nuovi protagonisti del Paese, i civili, che hanno sostenuto la rivoluzione e i vecchi ossi duri del regime, cresciuti sotto le ali del presidente deposto, che invece della rivoluzione si sono serviti, armi in mano, per continuare a mettere le mani sulle ricchezze del Paese, doveva portare gradualmente a un governo finalmente espressione delle forze democratiche di un Paese ormai fuori dalla “militarocrazia”. Prospettiva alquanto minacciosa per i militari che così avrebbero dovuto rientrare nelle caserme abbandonando le piazze degli affari.

Approfittando pertanto di un economia traballante che tornava a far lievitare i prezzi delle materie prime e dei carburanti, il 25 ottobre 2021, all’avvicinarsi della loro uscita di scena, i militari si impongono con la forza e viene designato come nuovo presidente del Consiglio Sovrano il generale Abdel al-Burhan mentre Hemetti, nominato suo vice, resta nell’ombra a tessere la sua fitta rete di intrallazzi economici e politici per mantenere lo status quo e reprimere l’ondata di sdegno dei manifestati. Saranno oltre cento le vittime rimaste colpite dalle Rsf e dagli altri militari nel corso delle affollatissime manifestazioni popolari.

Esattamente come prima, si susseguono lunghi mesi di manifestazioni incessanti in tutto il Paese e di trattative con i civili mentre l’economia gira sempre nelle solite tasche. Nel giugno dello scorso anno si apre un nuovo processo di Dialogo Nazionale per cercare, su forte pressione internazionale, di trovare nuovi accordi. Questi arrivano solo alla fine del 2022 con l’intesa sul trasferimento del potere: due anni di governo a guida civile prima di tornare alle urne.

Ma quando quell’accordo deve essere firmato, il 1 aprile scorso, e si fa seria l’ipotesi di una svolta democratica ecco riapparire all’orizzonte le solite tempeste per bloccare l’alba di un tempo nuovo per il Sudan.

Sabato 15 aprile scoppiano le ostilità tra i militari stessi ai vertici del Paese divisi sul da farsi: da una parte il presidente al-Burhan, a capo delle forze armate e apparentemente aperto alla nuova fase da intraprendersi che prevedeva anche il confluire delle Rsf nelle fila dell’esercito nazionale, e dall’altra Hemetti, che lancia, col sostegno dei paramilitari russi della Wagner, le sue Rsf all’assalto del palazzo presidenziale e dell’aeroporto.

In queste ore si combatte per il controllo della capitale e dei suoi punti chiave.

Sul terreno intanto si parla di quasi 300 morti e 2.600 feriti che trovano difficoltà ad essere assistiti dagli ospedali, 16 dei quali fuori uso e senza medicinali.

La terra di Daniele Comboni, il missionario che a metà Ottocento ha dato la vita per il riscatto degli schiavi e dei popoli africani, cominciando proprio dal Sudan, è oggi allo stremo. L’unica nota di speranza è l’anelito di libertà mai del tutto sopito nei cuori dei sudanesi che hanno fatto una rivoluzione nonviolenta. Un sogno alimentato dal sangue dei martiri che già cammina coi piedi per terra di tanti giovani, uomini e donne che hanno aperto il varco del nuovo Sudan. Una breccia incontenibile che neanche la guerra potrà seppellire.

Filippo Ivardi Ganapini è missionario comboniano

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