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Il vescovo della pace

Il vescovo della pace

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 29/07/2023

Qui l'introduzione di questo testo. 

«Ho passato più anni da vescovo che da uomo e il fatto, se devo essere sincero, la cosa mi spaventa!». Cosi, sorridendo, mi aveva detto mons. Luigi Bettazzi l’ultima volta che ci siamo incontrati. Invitato dai circoli ACLI o da parrocchie della nostra diocesi, mi è capitato tante volte di dialogare con lui, in particolare sul Concilio e la sua ricezione. D’altronde, Bettazzi del Concilio è stato davvero l’ultimo testimone vivente di quella straordinaria assise. Classe 1923, ordinato a quarant’anni vescovo ausiliare del cardinal Lercaro, ha avuto la fortuna di partecipare a tre sessioni del Concilio Vaticano II, di cui Lercaro fu uno dei quattro moderatori e certamente una figura chiave. Le problematiche innovatrici di quella stagione, che lo hanno visto un tenace sostenitore, diventano centrali in tutta la sua successiva opera pastorale. Alla fine del Concilio viene assegnato alla diocesi di Ivrea, dove rimane ininterrottamente fino al 1999, anno del suo “pensionamento”. È stato presidente della sezione italiana e internazionale del movimento cattolico Pax Christi e in questa veste ha spesso preso posizioni – contro la guerra e per la pace – che hanno fatto discutere.

Nel 1976, il suo carteggio con l’allora Segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, fu motivo di aspre polemiche. Lo aveva ben presente nella lettera aperta che scrisse e che iniziava così: «Onorevole, Le sembrerà forse singolare, tanto più dopo le ripetute dichiarazioni di vescovi italiani, che uno di loro scriva una lettera, sia pure aperta, al Segretario di un partito, come il suo, che professa esplicitamente l’ideologia marxista, evidentemente inconciliabile con la fede cristiana. Eppure mi sembra che anche questa lettera non si discosti dalla comune preoccupazione per un avvenire dell’Italia più cristiano e più umano».

Berlinguer rispose in tredici fitte cartelle dattiloscritte e il tutto divenne un libro che appassionò e fece molto discutere. Insomma, monsignor Bettazzi nella sua lunga vita ha sempre cercato di coniugare la riflessione religiosa e teologale con l'impegno sociale e, all’interno dell’episcopato italiano è stato molte volte una voce libera, a volte fuori dal coro. «Mica tanto», mi rispondeva. «In trentadue anni di episcopato ho ricevuto solo tre rimproveri. Il primo perché avevo elogiato il catechismo olandese. Il secondo perché non avevo mandato, come allora si usava, elogi all’uscita dell’Humanae vitae. Ricordo che chiamai in diocesi don Enrico Chiavacci a commentare, ai miei preti, il documento vaticano. In quell’occasione, il moralista fiorentino disse il testo pontificio andava interpretato dai vescovi e elencò una serie di letture, anche diverse tra loro, di alcuni episcopati. Chi stese le note dell’incontro sul bollettino diocesano forse forzò un poco e quindi mi arrivò una lettera della Segreteria di Stato con alcune osservazioni critiche. Il terzo fu a proposito di una mia introduzione alle omelie dell’abate Franzoni. In questo caso, mi chiamò il cardinal Baggio per ammonirmi. Questi sono gli unici rimproveri che ho ricevuto: forse sono stato un po’ troppo politically-correct! D’altronde quando padre Turoldo e padre Balducci insistevano perché mi buttassi di più, io rispondevo loro: “Non posso, tengo famiglia!”».

L’ultima volta che ci siamo incontrati abbiamo parlato a lungo della novità di papa Francesco. Aveva insistito sulla necessità, come Chiesa, di ripensare la tradizione come trasmissione: «Abbiamo sempre inteso la tradizione come uno star fermi sul passato, mentre in realtà la parola tradizione deriva dal latino tradere, cioè trasmettere. La tradizione è rinnovarsi continuamente. Io se ancora vivo è perché sono 99 anni che mi cambio. Se non avessi cambiato sarei in un piccolo recipiente di vetro dentro la formalina. Io sono lo stesso perché sto cambiando continuamente. Così credo che dovrebbe cambiare la Chiesa». E mi aveva di nuovo raccontato la barzelletta relativa a un famoso cardinale di Santa Romana Chiesa, schierato in modo esplicito a favore della conservazione. «Una mattina», racconta, «il cardinale Ottaviani si svegliò tardi. Chiamò un taxi: “Portami in fretta al Concilio”. Salito in auto, si riaddormentò. Quando finalmente si destò scoprì con suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”. Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?”».

Gli chiesi poi dove sta il valore di questo pontificato e subito mi ha risposto: «Portare a compimento il Concilio Vaticano II. Ho sempre ripetuto, anche in tempi di difficoltà, che indietro non si tornava. Oggi è venuto il tempo di realizzare pienamente la rivoluzione copernicana contenuta nella Gaudium et spes (non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità) e quella della Lumen gentium (non i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli) stentano ad affermarsi. Mentre le altre due (il primato della parola di Dio, esplicitato nella Dei Verbum, e la riforma liturgica, che, grazie alla Sacrosanctum concilium, è più partecipata di un tempo, sono sostanzialmente riuscite. Purtroppo le esagerazioni seguite al Sessantotto permisero a quelli che erano preoccupati dei cambiamenti di dire: “Vedete cos’è successo con il Concilio?”. C’era chi a Messa pretendeva di leggere Che Guevara al posto della Scrittura... “Insieme all’acqua sporca, però, si è corso e si corre il rischio di buttare via anche il bambino”. Certo che le resistenze sono tante, gli ho detto a proposito di papa Francesco. «Sì, del resto, cambiare una struttura – che per secoli è stata un potere – è molto più difficile che non farne una nuova, come è difficile far cambiare una certa mentalità alle persone». E quando gli chiesi quale fosse l’impegno da attuare subito mi rispose così: «Credo, anzitutto, la trasparenza e la veridicità dei bilanci economici e finanziari, a tutti i livelli, dal Vaticano alla singola parrocchia. E poi un’autentica comunione, perché nella Chiesa il clericalismo è molto forte».

Alla fine dei nostri incontri gli chiedevo sempre del suo rapporto con Dio, l’immagine che ne aveva, il valore della preghiera. E, ogni volta, le sue risposte hanno mo. «Ogni tanto mi prendo qualche giorno per pregare, per pensare nei posti più strani. Più volte sono andato in Burundi, perché là c’è una missione, un’altra volta, d’inverno, alle Isole Tremiti, in una trappa. Uno si mette davanti al Signore, prende la sua Parola, la legge, pensa a quello che il Signore gli ha voluto dire; si mette lì e anche se non sa dire tante cose… A volte faccio come quel contadino del curato d’Ars. Quel contadino andava in chiesa e stava lì ore. Allora il curato una volta gli disse “Senti, ma tu cosa fai quando vai in chiesa e stai lì davanti all’altare?”; “Io lo guardo e Lui mi guarda”». Ora – ne siamo certi – don Luigi è davanti al suo Signore e lo sta contemplando faccia a faccia.

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