
Caso Rupnik. «La Chiesa accoglie» è solo un mantra
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 37 del 04/11/2023
Le forme di abuso perpetrate dall’ex gesuita Marko Rupnik non riguardano solo la sfera sessuale; molto prima che si realizzi l’assedio sessuale c’è una gradualità non casuale di pressioni psicologiche, che cominciano con il love bombing, l’adulazione, il farti sentire unico e speciale. Tocca allo stesso tempo le proprie aree di difficoltà, di indecisione o di maggiore sofferenza. Questo è facilitato dal fatto che, negli Esercizi spirituali ignaziani, è previsto un “colloquio” quotidiano con chi li guida. In questo spazio, molto simile all’accompagnamento spirituale, è naturale per chi fa gli Esercizi condividere non solo l’esito della preghiera quotidiana, ma anche gli aspetti più intimi delle proprie difficoltà in campo spirituale, affettivo ed esistenziale. In questa profonda introspezione che gli Esercizi propongono, emergono anche esperienze anteriori eventualmente complesse, o su cui si è bloccati. Alla fine della prima settimana di Esercizi è prevista la “confessione di vita”, che normalmente chi è guidato da Rupnik fa con lui. Quando ho fatto per la prima volta gli Esercizi con Rupnik, in quattro giorni tutta la mia esperienza e vita spirituale ed ecclesiale è stata squalificata, messa in crisi. Lui si è “imposto” in modo subdolo ma preciso, premeditato. Dopo la seconda settimana ignaziana, in cui sono giunta alla decisione di seguire la vita religiosa, ho cominciato a incontrarlo regolarmente, e in poco tempo (pochi mesi) ho chiesto di entrare nella Comunità Loyola, che non aveva ancora una vera struttura (era il 1991).
Nelle esperienze di accompagnamento spirituale vissute prima di conoscere Rupnik mai nessuno mi aveva “determinato”, spinto a fare scelte precise, ma solo aiutato a capire meglio ciò che vivevo, per prendere le mie decisioni; ed era a lungo successo che non ne avessi presa alcuna. Nel rapporto con lui il suo stile deciso, “carismatico”, molto audace anche nei contenuti (a Gorizia, quando si occupava di pastorale giovanile alla Stella Matutina, faceva conferenze sulla sessualità molto seguite da giovani e coppie, con un approccio che definiva “spirituale”, nel quale confondeva i contenuti dei padri della spiritualità orientale con alcuni autori della psicologia contemporanea) portava a decidere, a fare cambiamenti molto in fretta, in uno stile da “conversione” che si può facilmente trovare in molte esperienze carismatiche e tipiche dei nuovi movimenti religiosi. Tutto questo mi ha affascinato. Non c’è stato abuso fisico, certo (e forse solo perché non ce ne è stata l’occasione). Lo stile era quello della “conversione repentina”, come la definisce William James. Ma la conseguenza di questo stile ha precipitato scelte che poi mi hanno portato a vivere una relazione molto repressiva con Ivanka Hosta e un abuso violento perché subdolo, sfociato in due esperienze di depressione molto complesse. Non mi è mai stato possibile avere cure adeguate. Anzi, ero colpevolizzata perché il mio stato di prostrazione, di vuoto esistenziale era, secondo Ivanka, la conseguenza di una mia eccessiva autonomia e mancanza di fede e di abbandono autentico a Cristo e alla comunità (cioè a Ivanka, in quanto superiora generale). Successivamente la tecnica è stata quella di isolarmi, parlando male di me alle altre sorelle, in mia assenza. Un metodo che usava, come riconosce anche il commissario mons. Libanori, con tutte le sorelle “problematiche”, che, in fondo, opponevano resistenza. E il metodo di parlare di assenti con terzi era assolutamente diffuso.
Esporsi in prima persona
Avrei già da tempo voluto denunciare apertamente, perché ho sempre avuto coscienza che denunciare è una responsabilità civica ed ecclesiale. D’altra parte, sono originaria del Sud Italia, e tutti questi vissuti, quando ne ho preso definitivamente coscienza con l’inizio del commissariamento della Comunità Loyola, li ho automaticamente associati alla mentalità mafiosa e alla manipolazione che la “cultura mafiosa” ha imposto e impone da decenni e che ormai, come sappiamo, si fonda anche su infiltrazioni pesanti nelle amministrazioni pubbliche e nella politica. È la stessa mentalità e modus operandi delle sette. Dunque, per me denunciare apertamente aveva il valore di riscatto e liberazione, e non solo per me, ma anche per altri che potrebbero ancora venire circuiti da queste due figure molto accentratrici e manipolatrici. Tuttavia molti mi hanno frenato, consigliato prudenza, soprattutto perché ho responsabilità nella Chiesa e lavoro in un’Università cattolica e questo avrebbe potuto avere impatto negativo sulla mia vita e sul mio lavoro. Era chiaro, però, che senza il coinvolgimento della stampa la Chiesa avrebbe continuato a ignorarci. Ma con gli ultimi due avvenimenti di settembre scorso (l’udienza del papa con Maria Campatelli e il report sulla visita canonica del Centro Aletti) la misura è stata proprio colma. Dovevo uscire allo scoperto, con la mia identità e con le mie competenze professionali. Era necessario dare un volto alle vittime e dire che non sono vulnerabili perché ignoranti, malate o fragili psicologicamente o senza mezzi; sono state vittime perché si sono fidate, mentre cercavano di vivere più radicalmente la loro esperienza spirituale e la loro fede (si veda la lettera aperta di cinque vittime al papa, Adista Segni Nuovi 32/23, ndr).
La nota del Vicariato
Si prova molta indignazione nel vedere che ci sono chiari tentativi addirittura di mettere in discussione le conclusioni del Dicastero per la Dottrina della Fede. Il Dicastero, anche se non ha proceduto a una condanna di Rupnik a causa della prescrizione dei fatti denunciati, ha tuttavia riconosciuto che la sua condotta era di abuso grave. Ora, mettere tutto questo in discussione provoca un profondo dolore in chi ha fiducia nei vescovi, nella Chiesa. E, chiaramente, anche nelle vittime, tutte, non solo quelle di questo caso così orribile.
Le richieste alla Chiesa
Perciò, ancora dopo un mese in cui nessuno, tra chi poteva e doveva farlo, ha pronunciato una parola di ascolto delle vittime, ritorniamo a chiedere che la Chiesa, con le sue istanze a ciò deputate, ascolti tutte le vittime. Chiediamo che sia coerente con ciò che afferma, cioè che ogni abuso ferisce la persona indelebilmente; chiediamo che la “tolleranza zero per gli abusi” non sia solo uno slogan. Chiediamo alla Chiesa e al papa che abbiano a cuore la verità, perché solo la Verità libera e potrà liberare anche il messaggio del Vangelo, troppo compromesso e offuscato da questi raggiri e complotti per coprire orrori e scandali. Ascoltare le vittime è un atto di civiltà e di fedeltà al Vangelo. Potremmo rileggere in questa ottica il brano di Matteo 25: oggi Cristo lo incontriamo e dobbiamo riconoscerlo anche nelle vittime di abusi non ascoltate e alle quali non si fa giustizia.
In questa vicenda c’è anche un passaggio che non è mai stato chiarito, e riguarda la scomunica latae sententiae comminata a Rupnik, e subitamente rimessa. Qualunque abusatore e non solo sessuale – lo vediamo in molti altri contesti come gli abusi di potere nei luoghi di lavoro, o nel mondo dello spettacolo e della finanza – può vivere dietro “una onorata facciata”. E chi ha ascoltato i membri della comunità del Centro Aletti può aver riscontrato una profonda dipendenza degli stessi dal loro leader manipolatore. In psicanalisi si parla di “identificazione con l’aggressore”, un meccanismo di difesa che la vittima sviluppa inconsciamente, soprattutto quando ha un diretto rapporto anche affettivo con il suo abusatore, e che porta a distorcere la realtà e anche il proprio vissuto. Anche alcune sorelle (molte per la verità) della Comunità Loyola affermano con assoluta convinzione che Ivanka Hosta è la vera vittima; che non c’è stato nessun abuso nel modo con cui Ivanka ha vissuto (e ancora vive) e operato nel suo ruolo di superiora generale. E che proprio quando lei usa modi duri che puntano su un’obbedienza assoluta, su una spiritualità del sacrificio e dell’unione con il Crocifisso, questo le aiuta a crescere spiritualmente. Ovviamente questo è un tipico modo di affrontare la difficoltà di vivere in autonomia e di poter riflettere criticamente e dire ciò che non va senza il terrore di essere infedele o ingrato verso chi ti ha convinto di volerti salvare e di agire per il tuo bene. E sopra ogni cosa, tale atteggiamento esorcizza la paura di essere distrutto dall’abusatore. È, in fondo, un modo per vivere nel dolore accettandolo, lasciando distruggere il proprio io, la propria identità, la propria salute fisica e psicologica, per sopravvivere.
Quando chi denuncia è una donna adulta
Certo, denunciare implica rischi. Sono cosciente del fatto che le vittime sono sempre soggette a nuove forme di vittimizzazione, quando denunciano. Lo vediamo anche in altri ambiti, diversi da quello ecclesiale. Nel migliore dei casi sono ritenute responsabili di aver accettato di relazionarsi con i loro abusatori (anche compagni di vita!), di non essersi rifiutate di aderire alle loro richieste; o addirittura di aver provocato, con il loro modo di essere eventualmente seduttivo, l’abuso. Se le vittime hanno ruoli di responsabilità e competenze culturali importanti saranno sempre viste con sospetto, addirittura ritenute opportuniste, e comunque ancor più rischiano di non essere credute e ascoltate. Soprattutto nella Chiesa, e proprio dalle donne, ascoltiamo spesso questi commenti. Molte religiose dicono e pensano questo a proposito delle denunce contro sacerdoti abusatori. E nel nostro caso, per il fatto che tutte abbiamo un livello abbastanza elevato di istruzione, ci è stato più volte chiesto come mai non ci fossimo rese conto che eravamo in un contesto abusivo e tossico, dal punto di vista spirituale e psicologico.
Essere vittima adulta di abusi, dunque, è una condizione molto più difficile nella Chiesa, oggi, e ancor più se vittima di abuso spirituale e psicologico. È il motivo per cui, per esempio, come psicologa ritengo che bisogna chiarire scientificamente e modificare il concetto di “vulnerabilità” nella sua dimensione psicosociale e dunque anche giuridico, come ho embrionalmente sostenuto nel mio articolo pubblicato su Adista (v. Adista Documenti n. 31/23).
Superare gli stereotipi
Spero che la Chiesa riesca a superare questi stereotipi, e che anche il diritto canonico modifichi e inserisca norme che riconoscano e tutelino dagli abusi spirituali. È una dimensione che cresce esponenzialmente in molti ambiti; ed è evidente che se la Chiesa rimane chiusa dinanzi a tanta manipolazione e sofferenza perderà sempre più credibilità. Le “chiese vuote” dopo la pandemia (un evento occasionale, ma che ha fatto emergere con maggior forza la crisi di partecipazione, nel sentirsi parte della comunità ecclesiale da parte di molti) non si risolvono con grandi raduni mondiali, né con riforme e proclami che non trovano riscontro né in azioni concrete e di prevenzione, né di riparazione. Non basta il “mantra” di una Chiesa che accoglie tutti, bisogna accogliere in verità soprattutto quelli che ci sono scomodi, che ci mettono dinanzi alle nostre responsabilità, che ci ricordano i nostri peccati di omissione.
Una formazione umana
Ci si interroga molto a proposito della formazione umana nei seminari, sulla prevenzione e su una educazione che porti a una sessualità e a relazioni umane sane e mature. Si chiede spesso agli psicologi come individuare potenziali abusatori, ma le loro competenze non sono una “palla di vetro” in cui vedere il futuro. Il contributo che personalmente mi sforzo di dare è di formare in pienezza la persona intera; mi occupo, con altri collaboratori, della formazione umana in un seminario teologico. In questo percorso, insieme ai formatori che si occupano dell’accompagnamento spirituale, cerchiamo di riconoscere gli impedimenti a uno sviluppo sano, capace di integrare la propria storia personale, e perciò ricomprendere la vocazione, la scelta di vita in un panorama più ampio. Indirizziamo, quando è il caso, a un intervento psicoterapeutico in vista della crescita della persona, e non con l’obiettivo della mera diagnosi di personalità. Quello che possiamo e dobbiamo fare è impegnarci in una prevenzione sistematica, non solo nei seminari, ma in tutto il tessuto ecclesiale. Ci sono anche famiglie “cristiane” abusanti dal punto di vista affettivo e non solo nella relazione intrafamiliare e intergenerazionale. Il terreno dei nuovi movimenti carismatici post-conciliari è molto propizio da questo punto di vista. Ciò significa, per me, riconoscere che l’abuso è un problema “sistemico”; che abbraccia realtà e responsabilità diverse. E che deve essere affrontato in modo sistemico, senza scinderlo dallo stesso fenomeno riscontrabile in realtà diverse da quelle delle parrocchie e movimenti ecclesiali.
Questo sguardo sistemico e sociale non serve a minimizzare le responsabilità degli abusatori e di chi collude coprendo, ma a comprendere la vera radice di questo fenomeno, che si insinua nei meandri della società postmoderna in un modo che veramente sconvolge.
Fabrizia Raguso è docente associata di Psicologia all’Universidade Católica Portuguesa di Braga ed ex religiosa della Comunità Loyola in Slovenia guidata da Ivanka Hosta, in cui fortissima è stata l’influenza del prete mosaicista ex gesuita, accusato di abusi sessuali, Marko Rupnik
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