
Non diamo il nome alla cosa
Newsletter n. 36 da Prima Loro del 15 ottobre 2025
Cari amici,
Trump non ha avuto il Nobel ma, usurpando il messianismo ebraico dopo 3000 anni di guerra, come dice lui, è andato a celebrare il trionfo alla Knesset, alzato sugli scudi come il vero re di Israele. Per la verità qualcuno lo ha paragonato a Ciro, il satrapo imperatore persiano che rimandò a Gerusalemme gli Ebrei deportati a Babilonia, ma qui il paragone non funziona, perché Ciro sarebbe piuttosto Hamas. Di Netanyahu il presidente americano ha detto che è stato difficile convincerlo a smetterla, segno che glielo ha ordinato dopo avergli inviato delle armi che neanche lui si aspettava, e che egli “ha usato nel migliore dei modi”, cioè uccidendo decine di migliaia di persone e distruggendo l’intera Gaza; è questo il “lavoro” che Trump lo ha costretto a smettere, perché gli stava mettendo contro tutto il mondo. Però Netanyahu è uno da ammirare, perché “sa vincere”, e come salario Trump ha chiesto a Herzog di dargli la grazia, assolvendolo sia per la corruzione sia per il concorso nel determinare l’orrore del 7 ottobre, crocevia dei due opposti terrorismi, di Hamas e dell’IDF, l’esercito israeliano.
Così regolata la partita tra i tre rei di genocidio, è andato in scena il vertice di Sharm el-Sheikh; e qui, per non cadere nello sconforto e nella previsione di nuove catene di male, dobbiamo fare una cosa dolorosa per noi, abituati a cercare la verità delle cose (vedi la newsletter n. 11, “Il nome alle cose”): dobbiamo rinunziare a dare il nome alla cosa, perché se dessimo il nome al Patto che vi è stato firmato, dovremmo riconoscere che è il prodotto di un’associazione a delinquere, operante non su un piano privatistico, come di solito accade, ma in sede pubblica, al massimo livello dei poteri internazionali: una condotta tale da fare inorridire, e per non averne il contagio occorrerebbe che lo si riconoscesse, a cominciare dai cantori dei valori dell’Occidente e dell’atlantismo e dai giornali di tutte le destre; e più di destra che sono più dovrebbero denunciarla e giurare di non farlo mai più.
E tuttavia anche noi, come i palestinesi stremati di Gaza e gli israeliani in lotta per riabbracciare gli ostaggi, dobbiamo gioire, per la fine di un incubo, e del maggiore di tutti, la terza guerra mondiale, di cui eravamo arrivati “sull’orlo” (e qui Trump aveva ragione), e “non ci sarà” (Ucraina permettendo).
Al vertice di Sharm el-Sheikh c’erano tutti, compreso chi non aveva fatto nulla per far cessare la strage, ma non c’erano i due contraenti del Patto, il quale perciò, come ha detto l’autorevole ambasciatore Sessa, che fu il consulente diplomatico di Moro, “è stato firmato col morto”, e anzi con centomila morti. Quanto all’Italia, nello “show” allestito da Trump essa è stata oggetto di particolare effusione, ma per galanteria, in quanto si trattava di una donna, in spregio di ogni femminismo.
Ora siamo al punto in cui sono lecite le più fosche previsioni sul seguito che avrà il piano di Trump e sulla sorte dei Palestinesi, o un’indomita speranza per il futuro che, incompiuto il genocidio, potrebbe riaprirsi. I tre milioni di manifestanti in Italia (vox populi), quelli della marcia Perugia-Assisi, le flottiglie e l’insorgenza della protesta in tutto il mondo, tanto poco antisemita da tracimare anche dalla diaspora ebraica, ci dicono che il popolo palestinese non sarà lasciato solo e ci incoraggiano a optare per la speranza. Questa non può essere se non che si apra un varco non solo a Rafah e a Khan Yunis per gli aiuti, ma per aprire la strada a una vera soluzione della “questione palestinese”, che altro non è se non la questione della presenza di due popoli sulla stessa terra. Finora sono tre i modi in cui Israele ha cercato di risolverla, e tutti e tre sono falliti. Il primo, dal 1948 in poi, è stato il tentativo di Israele di estirpare ed espellere i Palestinesi dai loro villaggi, a cominciare da Deir Yassin e dalla prima Nakba; il secondo, dopo la guerra del 1967, è stato il tentativo di un totale assoggettamento a Israele e del dominio totale dei coloni: il terzo, dopo il massacro del 7 ottobre 2023, è stata l’uccisione generalizzata e il genocidio. Falliti questi progetti, non c’è che da perseguire un’altra, più umana soluzione. Per molti anni si è creduto che questa potesse essere “due Stati per due popoli”, ma Netanyahu ha promesso e fatto in modo che mai ci sarà. Dunque non resta che la soluzione regina, che è la riconciliazione tra i due popoli: nelle parole di papa Leone all’Angelus si tratta di “compiere ciò che umanamente ora sembra impossibile: riscoprire che l’altro non è un nemico, ma un fratello a cui guardare, perdonare, offrire la speranza della riconciliazione”. In prospettiva, sia pure lontana, essa dovrà giungere alla convivenza in un unico Stato, il che comporta una profonda revisione della natura dello Stato-nazione di Israele, che non riservi più al popolo ebraico il “diritto esclusivo” all’autodeterminazione, ma accolga ambedue i popoli preservandone la rispettiva identità: che uno Stato possa cambiare natura sta nelle cose ed è riconosciuto dagli storici, come da ultimo dallo storico ebreo Ilan Pappé. A tal fine, se il popolo palestinese dovrà rinunciare a perseguire con la violenza il suo ideale nazionale, il popolo ebraico dovrà convertirsi scendendo dal piedistallo della sua unicità rispetto a tutti gli altri popoli, e riconoscersi come un popolo che vive con tutti gli altri popoli, abbandonando la lettura fondamentalista della Bibbia che ancora domenica scorsa, nella liturgia della Messa cattolica, faceva dire a Naamàn, un comandante arameo guarito dalla lebbra dal profeta Eliseo: “Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele” (2 Re 5, 14-17): invece è su tutta la terra che ogni popolo incontra quello stesso Dio.
Certamente alla riconciliazione fa da ostacolo il ricordo della crudeltà con cui israeliani e palestinesi si sono combattuti. Ma noi non siamo soggiogati dal ricordo: l’esercizio consapevole e responsabile della memoria è la scelta tra il possedere la memoria o l’esserne posseduti. Come abbiamo scritto nella nostra newsletter n. 26 ai domiciliati a Gaza, “il grado moralmente più alto di questo esercizio della memoria è il perdono del male ricevuto”. E avevamo citato Raimundo Panikkar, quando diceva che il perdono “è quasi il contrario della creazione: se la creazione è creazione di essere, il perdono annichila, elimina, fa venir meno quello che è stato”. Non una rimozione, ma un nuovo inizio.
Nel sito pubblichiamo la lettera aperta di Adolfo Perez Esquivel al Premio Nobel per la pace Corina Machado, e una dolente riflessione da Gaza, dopo la firma della tregua.
Con i più cordiali saluti,
per “Prima loro”, Raniero La Valle.
*Immgaine generata con IA
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