
La guerra tra Israele e Hamas e il senso del limite
«L’umanità va difesa, anche in guerra»: così titola l’editoriale di novembre di Aggiornamenti Sociali, firmato dal direttore responsabile, il gesuita Giuseppe Riggio. Dopo aver condannato con fermezza l’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso e il rapimento di ostaggi, il gesuita ha puntato l’attenzione sulla «violenta risposta di Israele», sull’assedio, sulla privazione di acqua, elettricità e carburante. E sulla possibilità che questo conflitto apra scenari catastrofici per tutta la regione.
Secondo Riggio il conflitto in corso «va al di là della dimensione regionale» e interroga la comunità internazionale sulla possibilità di considerare “normale” la guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra popoli, il che rappresenterebbe «una sconfitta per l’umanità intera». Anni di guerre in Africa, afferma il direttore, ci insegnano che le guerre smuovono le coscienze internazionali non tanto per la loro brutalità, quanto per gli interessi geostrategici ed economici coinvolti.
Il conflitto in Medio Oriente è uno di quelli che investono l’opinione pubblica, anche italiana, spaccata nella «ricerca del colpevole», prosegue Riggio. «Si tratta di un’esigenza legittima – spiega – che però si scontra con la constatazione che individuare le responsabilità tanto materiali quanto morali è un’operazione tutt’altro che semplice». Complica il quadro la polarizzazione messa in campo dalla propaganda e dalla circolazione di commenti e notizie, spesso fake news, sui social media. Ma puntare il dito non è mai facile «quando si tratta di un conflitto che dura da 70 anni», nel corso dei quali «si è stratificata una storia scandita da ingiustizie e atti di violenza perpetrati e subiti da un lato e dall’altro, che sono stati di volta in volta ora vittime ora carnefici».
Il gesuita invita allora a non cadere nella «trappola delle semplificazioni e delle polarizzazioni». Ad evitare, per esempio, di schierarsi o con Hamas o con il governo israeliano, di identificare «in modo indebito tutti i palestinesi con le scelte violente fatte da Hamas o tutti gli israeliani con le decisioni del loro Governo».
Intanto, una certezza c’è: le parti in causa in questo conflitto sembrano aver «accettato che i civili siano “sacrificabili”», in quanto «danni collaterali di una violenza bellica che infrange di fatto uno dei principi di base del diritto umanitario internazionale», e cioè la protezione dei civili nei contesti di guerra. Allo stesso modo è saltato «l’altro caposaldo» del diritto internazionale, e cioè «il criterio della “proporzionalità”» di un’azione militare.
Riggio invita non tanto a chiedersi chi ha torto e chi ragione, ma quale è «il limite che non si può superare dal punto di vista politico, giuridico ed etico». E quale limite la comunità internazionale può o non può tollerare. «Qual è il limite che non si può oltrepassare perché la risposta a un attacco sofferto non si trasformi in qualcosa di ben diverso?», si chiede il direttore. «La risposta dipende anche da come viene definito il destinatario delle proprie azioni». Se il nemico viene generalizzato e disumanizzato, allora «anche i minori diventano colpevoli e meritevoli di essere puniti» e l’esito di una guerra è solo «la spirale di odio» e la «scia di dolore e incomprensione». Certo, non la pace.
Grande la responsabilità di chi si occupa di informazione e comunicazione, avverte Riggio, nel «cercare di smascherare queste narrazioni ogni volta che ce le ritroviamo davanti, che si tratti della guerra arabo-israeliana o di conflitti più domestici, per costruire una cultura che sappia guardare di volta in volta all’avversario, all’interlocutore, al vicino, riconoscendo e abbracciando tutte le sfumature della sua persona, quelle positive come quelle negative, senza sfigurarlo o trasformarlo in un personaggio anonimo».
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