
Gravi omissioni conciliari di certi vescovi e cardinali
Tratto da: Adista Notizie n° 34 del 04/10/2025
Un’amica mi ha inviato l’intervista del card. François-Xavier Bustillo al canale YouTube del domenicano Paul-Adrien du Moulinet d’Hardemare.
Dalla mia formazione ho conservato il gusto per la precisione. Non sarebbe giusto rimproverare al cardinale la difficoltà di trovare la parola esatta in un esercizio delicato come un’intervista a bruciapelo. Ce l’ho dunque con l’idea veicolata e non con lui. Ci tengo a dirlo perché lui stesso ha sottolineato che viviamo in un clima in cui ogni parola pronunciata può suscitare reazioni immediate e polemiche. Non è questo il mio spirito, e ringrazio chi vorrà tenerne conto.
Ho sobbalzato quando, al minuto 4, ho sentito queste parole: «Quando si è vescovo, si ha la pienezza del sacerdozio». No, Signor cardinale: un vescovo non ha la pienezza del sacerdozio, ma «la pienezza del sacramento dell’Ordine».
Per qualcuno sarà una questione di lana caprina. Ma l’unico sacerdote è Gesù. I battezzati partecipano del suo sacerdozio attraverso quello battesimale; presbiteri e vescovi ricevono il sacerdozio ministeriale o gerarchico, come spiegato chiaramente nei testi del Vaticano II, in particolare Lumen gentium e Christus Dominus. In questa visione d’insieme bisogna sempre tenere presente che al vescovo, secondo la più antica tradizione, è attribuito il primatus sacerdotii (la primazia del sacerdozio). Se nei documenti dottrinali si trova talvolta l’espressione «pienezza del sacerdozio», è sempre nel senso di «pienezza del ministero sacro».
La conseguenza di questa precisazione è di evitare il clericalismo alla radice della crisi degli abusi. È perché certi vescovi (non il cardinale) e sacerdoti (non io) si sono identificati in Cristo stesso, attribuendosi ciò che era solo un ministero la cui pienezza appartiene solo a lui, che sono giunti a esercitare un potere sui fedeli, talvolta purtroppo consenzienti o persino richiedenti.
La grazia del ministero episcopale e sacerdotale certo conforma a Cristo chi lo riceve, permettendogli alcuni gesti sacramentali riservati, ma mai fino a mettersi personalmente al suo posto. Come riassume Lumen gentium 62: «Il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele». In altre parole, la nostra fede è in Cristo, non nel vescovo o nel parroco.
Questo punto dottrinale chiarisce anche un passaggio successivo dell’intervista, al minuto 17, su «tradizionalisti, carismatici e moderni», dove ho di nuovo sobbalzato. «Se un tradizionalista si sente migliore con il latino nella messa antica, penso: bene, continua». Lo stesso vale per le altre sensibilità. «Invece di celebrare le differenze, ci irrigidiamo»; «ognuno, secondo sensibilità, percorso e storia propri, deve poter offrire il meglio di sé», ha aggiunto, anche se c’è il rischio di «ideologizzare il proprio pensiero» e «dogmatizzare la propria sensibilità».
A prima vista, sono parole di un saggio pastore. È vero che un sacerdote o un vescovo ha il compito di essere ministro di comunione nella parte di popolo di Dio affidatagli. Ma, qui sta il problema, la comunione è fine a se stessa? Si può cercarla a scapito della fede e della prassi comune sancita da un Concilio ecumenico? Dalla morte di papa Francesco, diversi cardinali hanno affermato che la riforma liturgica del Vaticano II sarebbe dopotutto opzionale. La cosa più terribile è che nessun cardinale, vescovo o sacerdote difende l’integrità del patrimonio conciliare. Sarebbe considerato settario, ideologizzato e dogmatico chi come me rifiuta di mettere da parte la prima costituzione del Concilio Vaticano II, sulla riforma della liturgia? Da un lato ci sarebbero i pastori concilianti ma non conciliari, formati alle tecniche di gestione dei conflitti e discepoli di san Panurgo; dall’altro, chierici tristi e nostalgici di un Concilio ormai dissolto nelle polarizzazioni identitarie e nella riscrittura estremista della storia della Chiesa. In realtà, dietro la finta disputa sulla liturgia preconciliare assistiamo a un vero occultamento del Vaticano II in sé. L’assenza, finora, di reazione nei nostri pastori è un grave peccato di omissione. Per fortuna i papi parlano. Papa Leone ha affermato con forza: «Vorrei che oggi rinnovassimo insieme la nostra piena adesione al cammino che la Chiesa universale segue da decenni sulla scia del Concilio Vaticano II. Papa Francesco ne ha magistralmente ricordato e attualizzato i contenuti nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium…».
Allo stesso modo, papa Francesco scriveva nella lettera apostolica Desiderio desideravi (29 giugno 2022, n. 61): «Non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità. Questa unità intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano».
Il cardinale di Ajaccio non mi rimprovererà se uso le sue parole volatili per ricordare che l’unità della Chiesa va ben oltre l’identità episcopale o le sensibilità politico-culturali dei fedeli. Ruolo del pastore non è assecondare gli umori variabili del popolo, ma cercare con forza l’unità della Chiesa, secondo il motto energico di papa Leone: In Illo Uno Unum (siamo uno nell’unico Cristo).
P. Pierre Vignon è prete a Valence, già giudice ecclesiastico della diocesi di Lione
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