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Tra le crepe e le fessure un nuovo modo di essere Chiesa

Tra le crepe e le fessure un nuovo modo di essere Chiesa

Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 25/10/2025

Qui l'introduzione a questo testo. 

Molti si chiedono come si spieghi il fatto che, al giorno d'oggi, in tutti i continenti, la maggior parte delle parrocchie cattoliche esprima ancora un cattolicesimo devozionale, tipico dell'epoca delle nostre nonne. In America Latina, anche nelle parrocchie e nelle diocesi in cui, alcuni decenni fa, si tenevano incontri di comunità ecclesiali di base e di circoli biblici, oggi si celebrano solo novene ai santi, seguite dal rosario e dall'adorazione del Santissimo Sacramento. Molti sacerdoti, per lo più giovani, danno più importanza alle vesti liturgiche che alla missione di testimoniare il progetto divino nel mondo, ricorrendo a una corte di dieci o dodici chierichetti, tutti vestiti con tuniche rosse, per celebrare la messa.

C'è chi attribuisce la responsabilità di tutto questo ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i quali, in effetti, hanno fatto di tutto per promuovere un ritorno al regime di cristianità o dar vita a una sorta di neocristianità.

Senza dubbio, questo tentativo di rilanciare la cristianità ha beneficiato anche dei cambiamenti socioculturali che hanno interessato la società internazionale a partire dagli anni '90, dopo la caduta della cortina di ferro e la fine dell'Unione Sovietica, con l’avvento della globalizzazione neoliberista.

Fin dagli anni '70, il governo degli Stati Uniti aveva colto la necessità di sostenere in America Latina i gruppi pentecostali per controbilanciare l'influenza del cristianesimo della liberazione tra la popolazione. Oggi il presidente Donald Trump annuncia la creazione di un Ufficio della Fede alla Casa Bianca, guidato dalla reverenda Paula White, “consulente religiosa” del presidente e “televangelista”.

Non può non impressionare come ancora una volta si incrocino movimenti politici e religiosi al fine di esercitare un’influenza sulla società e il controllo del potere politico.

Attribuire l’involuzione ecclesiologica che stiamo vivendo ai papi che hanno preceduto Francesco può esimere da ogni responsabilità gli attori più vicini e diretti. Se i vescovi, i sacerdoti e i gruppi cattolici locali, anche quelli con una visione ecclesiale più aperta, non fossero stati permeati da una cultura religiosa tributaria della cristianità, difficilmente le autorità romane degli ultimi decenni e i loro ambasciatori nelle nunziature avrebbero avuto tanto successo nel dare al mondo l'impressione che il Concilio Vaticano II non valesse nulla o servisse solo a dare una nuova mano di vernice alle pareti della cristianità medievale.

Nella Chiesa cattolica, ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la nomina di vescovi, per lo più conservatori, ha cambiato il volto dell'episcopato in America Latina e nel mondo. Tuttavia, attualmente, anche nelle diocesi in cui i vescovi sono pastori illuminati che sostengono la pastorale sociale, qualcosa è cambiato in modo essenziale. Sono proprio il clero e i gruppi cattolici a optare per un cattolicesimo puramente devozionale e sempre più romanocentrico.

Vi invito a cercare di comprendere tale fenomeno, complesso nelle sue motivazioni e nelle sue espressioni, ma caratterizzato dal tentativo di un ritorno alla cultura e alla spiritualità della cristianità.

Nel proporre questa riflessione, mi pongo in dialogo con voi, compagni e compagne di cammino, come «vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione» (che certo non manca nel momento attuale), «nel regno» (la speranza di veder realizzato il progetto divino nel mondo) e «nella costanza in Gesù» (Ap 1, 9).

1 – La cristianità è morta, ma continua a essere un riferimento ecclesiale

Nel luglio 2025, presso l'Università Cattolica di Belo Horizonte, si è tenuto il 40° Congresso della Società di Teologia e Scienze della Religione (SOTER). La mattina del penultimo giorno, monsignor Joaquim Mol, vescovo ausiliare della diocesi di Santos, e la professoressa Maria Clara Bingemer, teologa e docente dell'Università Cattolica di Rio de Janeiro, hanno tenuto una brillante conferenza sui 60 anni del Concilio Vaticano II e sulla sua eredità per la teologia dei nostri giorni, mostrando gli immensi cambiamenti che i documenti del Vaticano II e le loro intuizioni teologiche e pastorali hanno portato alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese.

All'inizio, il vescovo ha citato papa Francesco, affermando: «Non siamo più nella cristianità. Non più!». E ha proseguito: «La cristianità è finita, anche se alcuni insistono, suscitando amarezza e disorientamento, nel voler farla rivivere, come si cerca di rianimare un cadavere in decomposizione».

La cristianità come religione civile potrà anche essere superata, benché in Brasile e in altri Paesi la stessa conferenza episcopale si impegni a difendere documenti come il Concordato, in base a cui la gerarchia cattolica si sente in diritto di godere di alcuni privilegi civili in settori importanti come l'istruzione e l'esenzione fiscale. Ma, se la società è cambiata e le Chiese sono state costrette a farlo, la cultura della cristianità resta viva.

Le parrocchie e le diocesi continuano a essere organizzate secondo il modello della cristianità. Anche i fratelli e le sorelle che si muovono in un nuovo e più critico campo teologico, in realtà, consciamente o inconsciamente, vivono all'interno di un modello di Chiesa almeno simbolicamente legato alla cristianità. Forse non hanno alternativa. Ritengono che l'unica Chiesa esistente sia quella tradizionale basata sul potere sacro e organizzata secondo l'ecclesiologia della cristianità.

Negli anni '90 è diventato pubblico un dibattito tra il cardinale Joseph Ratzinger e il cardinale Walter Kasper, in cui Ratzinger sosteneva che la Chiesa universale precede le Chiese locali, che da essa dipendono, mentre il cardinale Kasper difendeva la posizione più fedele al Concilio Vaticano II: che cioè la Chiesa è essenzialmente locale. La Chiesa universale è la comunione delle Chiese locali e, quindi, dipende dalle Chiese locali. La Chiesa di Roma vanta il primato in questa comunione ma dovrebbe esercitarlo in termini non di potere, bensì di servizio all'unità di tutte le Chiese.

In questo dialogo tra i due cardinali emergevano due visioni opposte. Il cardinale Ratzinger auspicava un modo di essere Chiesa che, pur consapevole dell'impossibilità di ricostituire il regime teocratico della cristianità, mirasse a mantenere l'organizzazione interna della Chiesa, la sua missione e la sua spiritualità proprie di quel modello. Il cardinale Walter Kasper era consapevole che la sua visione della Chiesa era ancora un progetto in costruzione e una speranza, vissuta da piccoli gruppi ecclesiali e da minoranze abramitiche.

Il Concilio Vaticano II ha definito la Chiesa come popolo di Dio e ha posto i ministeri ordinati al suo servizio. Tuttavia, la cultura non cambia solo per il fatto che la teologia è cambiata.

Prima del Concilio Vaticano II, il teologo Yves Congar affermava che, durante il periodo della cristianità, l'ecclesiologia era stata ridotta a gerarcologia, intendendo in pratica la Chiesa come sinonimo di gerarchia, una piramide al vertice della quale si trova il papa. In questo modello ecclesiastico, il ministero si confonde con la gerarchia e la sinodalità è accettata solo nella misura in cui rimanga intoccabile il potere gerarchico del papa, dei vescovi e dei sacerdoti.

Così, il clericalismo persiste necessariamente, e non come un abuso del sistema ecclesiastico, come spesso denunciato da papa Francesco, ma, purtroppo, come espressione normale del sistema stesso.

Nel 1975 si tenne a Vitória, nello Stato di Espírito Santo, il primo incontro interecclesiale delle CEB (Comunità Ecclesiali di Base). Il tema dell'incontro era “La Chiesa che nasce dal popolo, per la forza dello Spirito”. Ora, dopo 50 anni, chi guarda alla realtà della Chiesa cattolica e delle altre Chiese, in Brasile e nel mondo, può pensare che non si sia trattato altro che di un progetto utopico, sperimentato da quelle minoranze che Dom Hélder Câmara definiva abramitiche, in quanto feconde malgrado la loro fragilità e il loro carattere minoritario. Anche se oggi ci rendiamo conto che forse non erano poi così abramitiche, considerando che questo progetto non sembra essere sopravvissuto all'inverno ecclesiale degli ultimi decenni.

Anche con il clima di apertura consentito dal ministero di papa Francesco, nelle Chiese locali non c’è un clima aperto. Il nuovo modo di essere Chiesa resiste ostinatamente e profeticamente in piccoli cenacoli di resistenza, praticamente ignorati dalla maggior parte del clero e della gerarchia, proprio nelle fessure e nelle crepe dell'attuale progetto di ricostruzione della cristianità. Sebbene fragile, come un fiore in mezzo a un campo arido, questo progetto porta avanti la profezia di un nuovo modo di essere Chiesa.

Papa Francesco è riuscito a offrire al mondo una nuova prospettiva per la missione delle Chiese. Ha ripreso la centralità dell'opzione per i poveri, che dovrebbe essere la missione delle Chiese cristiane. È stato il primo papa a condannare chiaramente il capitalismo (affermando che «questo sistema uccide»). Presentandosi, prima di tutto, come vescovo di Roma, ha valorizzato il significato della Chiesa locale come modello di Chiesa, in comunione con le altre. Ha messo in guardia il mondo rispetto alla priorità della questione ecologica e ha proposto l'Ecologia Integrale come elemento essenziale della missione della Chiesa. Ha evitato di affermare che la cosa più importante è l'annuncio esplicito di Gesù Cristo e che la missione della Chiesa è quella di salvare le anime.

Tuttavia, per quanto riguarda l'organizzazione interna della Chiesa cattolica, in particolare rispetto al clero, alla gerarchia e ad alcuni movimenti religiosi, sembra non aver ottenuto quasi nulla.

E la prima difficoltà è data proprio dal fatto che la maggior parte delle istituzioni ecclesiastiche, alle quali molti di noi sono legati, continuano a essere organizzate secondo la logica della cristianità. Oggi, in quasi tutto il mondo, chiunque può prendere i mezzi pubblici e, in poco tempo, recarsi dall'altra parte della città e partecipare alla vita della parrocchia o della comunità in cui si sente più a suo agio. Tuttavia, finché l'ordine non verrà da Roma, in tutto il mondo le parrocchie cattoliche continueranno a essere territoriali.

Molti religiosi e religiose appartengono a congregazioni e ordini fondati durante il regime di cristianità, sulla base di quella logica e di quella teologia, con un governo generale e con leggi approvate dal Vaticano e dipendenti dal papa e dalla curia Romana. Teologi e teologhe lavorano quotidianamente con università che si chiamano PUC: Pontificia Università Cattolica. Come comprendere tutto questo, se non nella logica della cristianità? Molte congregazioni gestiscono scuole intitolate ai loro santi fondatori e fondatrici e puntano su un'educazione religiosa basata sul presupposto che celebrare messe nelle scuole e promuovere la prima comunione e le feste dei santi patroni garantità la fede cristiana degli studenti e delle studentesse.

È la stessa mentalità che spiega come, nel maggio 2025, in pieno XXI secolo, in televisione e in Internet, gran parte dell'umanità sia tornata al Medioevo per seguire il conclave in occasione dell'elezione di papa Leone XIV, quando cardinali provenienti da tutto il mondo hanno rivitalizzato lo sfarzo pagano, ripetendo senza alcun imbarazzo il rituale della chiusura delle porte della Cappella Sistina e l'Extra omnes, decisamente anacronistico nel mondo della comunicazione virtuale e contrario al Vangelo di Gesù e a tutto ciò che papa Francesco ha insegnato sulla natura e sulla missione della Chiesa: un ritorno al passato fino all’XI secolo, quando il mondo cattolico si identificava con l'Europa occidentale e il papa era scelto per essere sovrano degli Stati Pontifici e incoronare l'imperatore del Sacro Romano Impero.

Tutto questo mi ricorda come, nel 1966, quindi subito dopo il Concilio Vaticano II, dom Hélder Câmara, allora arcivescovo di Olinda e Recife, propose a papa Paolo VI di rinunciare alla carica di capo di Stato, di consegnare il Vaticano all'ONU e di andare a vivere a San Giovanni in Laterano, antica sede del vescovo di Roma. Il vescovo non ricevette mai una risposta da parte del dal papa, ma ebbe la conferma che questi aveva ricevuto la sua proposta tramite una lettera ufficiale del cardinale Villot, segretario di Stato, che affermava: «Eccellenza, il Santo Padre ha ricevuto la sua lettera e la ringrazia, ma ricorda a Vostra Eccellenza che non viviamo più ai tempi del Vangelo».

Ciò che motivava Hélder Câmara e, più recentemente, papa Francesco non era però un ritorno ai tempi del Vangelo, ma lo sforzo di recuperarne lo Spirito.

2 – La cristianità come modello pastorale

La sfida di vivere un nuovo stile ecclesiale, libero dal modello della cristianità, non interessa sacerdoti e pastori legati a centri di estrema destra, né coloro che celebrano la messa in latino secondo il rito precedente al Concilio: sono una minoranza e il loro progetto di Chiesa e di mondo è chiaro e non lascia spazio a confusioni. La sfida maggiore è quella legata a una struttura ecclesiale che sembra più aperta, ma che resta incapace di superare la cultura religiosa della cristianità. In questo modello, oggi egemonico, è impossibile mettere in pratica la proposta di vivere una Chiesa in uscita, a partire dalle periferie del mondo, e organizzarsi sulla base della sinodalità.

È diritto dei vescovi organizzare le cosiddette pastorali sociali in modo che si orientino all'azione sociale trasformatrice. Ma se la stessa ecclesialità e la stessa missione sono ancora viste all'interno di una cultura di neocristianità, allora, nella vita quotidiana delle parrocchie e delle diocesi, le pastorali sociali appariranno ancora come qualcosa di esterno e secondario nella vita e nella missione della Chiesa. Concretamente, esse restano soggette al giudizio del sacerdote, che consenirà o meno lo svolgimento di riunioni e celebrazioni nelle case.

Dalla fine degli anni '70, in America Latina, le pastorali sociali e i movimenti popolari si inseriscono nei pellegrinaggi e negli eventi dei santuari tradizionali e del cattolicesimo popolare. Tuttavia, molti agiscono come se, per il solo fatto che il loro discorso è legato socialmente e politicamente al cristianesimo della liberazione, tali manifestazioni tradizionali possano continuare a essere clericali, patriarcali e persino coloniali. Così, la cristianità viene addirittura alimentata da gruppi che si identificano con il cristianesimo della liberazione. Non possiamo illuderci: ritenere che la cristianità possa essere liberatrice è come pensare di ottenere la quadratura del cerchio.

3 – Cristianità come modello di spiritualità

Non è facile definire ciò che costituisce la cultura e l'ecclesiologia della cristianità o neocristianità. È chiaro che l'identificazione della Chiesa con il clero e la gerarchia ne rappresenta un elemento fondamentale. E anche che in questo modello la Chiesa è caratterizzata dal culto. Il Concilio Vaticano II aveva ragione nell'affermare che l'eucaristia e, quindi, la liturgia, è «fonte e apice di tutta la vita cristiana» (LG 11). Ma ciò riguardo ai sacramenti. In realtà, la fonte e l’apice della vita e dell'azione della Chiesa sono l'amore (la carità) e la fede che si esprime attraverso questo cammino d'amore. La liturgia e l'eucaristia lo esprimono in maniera sacramentale.

Tuttavia, in una realtà di cristianità, sembra che questi piani si confondano e il sacramentalismo diventi l'unica realtà. In generale, in una cultura di cristianità, le persone confondono il Regno di Dio con la Chiesa e, concretamente, con la Chiesa cattolica. Anche se abbiamo superato i tempi dell'intolleranza e della condanna nei confronti delle altre Chiese e delle altre religioni, la Chiesa cattolica mantiene un'autosufficienza spirituale che non la aiuta ad adottare un modo di vivere la fede aperto al dialogo e al cammino comune con altre Chiese e religioni.

Dove il cattolicesimo della cristianità si esprime maggiormente nella vita quotidiana è nella spiritualità delle devozioni e nella celebrazione quotidiana e domenicale della messa, secondo il Rituale romano. Le devozioni, le novene e la spiritualità proposte dalla maggior parte delle parrocchie hanno come fondamento e orizzonte una visione spirituale che separa il cielo dalla terra. Questa separazione tra sacro e profano impedisce che la proposta del regno divino come offerta per il mondo abbia una reale importanza. Per questo motivo, le pastorali sociali possono essere accettate nient’altro che come strumenti di una carità praticata dalla Chiesa come qualcosa di esterno alla sua missione essenziale che, in questa visione, sarebbe di carattere spiritualista.

In generale, le devozioni tradizionali della gente semplice sono espressioni valide della cultura del popolo. Ed è deplorevole che i sacerdoti cerchino di clericalizzare devozioni che sono nate laiche attraverso le figure di rezadeiras e benzedores (figure della cultura popolare, prevalentemente donne, che utilizzano la preghiera e le pratiche tradizionali per curare mali fisici e spirituali, come guardiane di un sapere ancestrale, ndt) e le utilizzino come volto di una Chiesa autoreferenziale e alienata. Questo tipo di populismo spirituale, utilizzato da alcuni ministri per compiacere le masse è pura prostituzione della fede e della spiritualità.

Nel caso della spiritualità della cristianità, il centro è la messa così come viene oggi celebrata. Senza dubbio, l'Ultima Cena di Gesù è la proposta più radicale e rivoluzionaria contenuta nei Vangeli: Gesù ha fatto della condivisione del cibo il sacramento della nuova alleanza e il segno permanente della sua presenza tra noi. L'eucaristia è profezia della comunione divina e memoriale del dono di Cristo all'umanità. Tuttavia, nonostante i cambiamenti positivi proposti dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, l'attuale rito della messa è comunque il frutto della lunga storia della tradizione liturgica occidentale e del rito come veniva celebrato dalla Curia Romana nell’XI secolo.

Nella seconda metà degli anni '60, a Roma, il Consiglio per l'attuazione della Costituzione del Vaticano II sulla liturgia (Consilium ad Exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia) rielaborò sì il rituale, valorizzando la dimensione comunitaria e celebrativa, ma non riuscì a superare la mentalità sacrificale, comune alle antiche religioni pagane, mantenendo il carattere di culto sacerdotale della messa, già da secoli trasformata da cena fraterna in sacrificio sull'altare.

È proprio per superare questo divorzio tra liturgia e vita che, negli incontri delle CEB e delle pastorali sociali, le comunità popolari hanno sviluppato l'abitudine di celebrare incontri eucaristici centrati nuovamente sulla condivisione e sulla comunione. Nel luglio 2022, all'apertura del XV Incontro interecclesiale delle CEB a Rondonópolis, tre donne hanno presieduto l'agape, rievocando la memoria dell'ultima cena di Gesù, cantando la preghiera eucaristica e rendendo grazie a Dio per il pane, il vino e gli altri alimenti condivisi da tutti con gioia. Erano presenti molti vescovi e sacerdoti e sembra che tutti si siano sentiti partecipi e ugualmente accolti.

È così che le comunità possono essere aiutate a recuperare il diritto di ogni persona battezzata a vivere, nella gioia della fede e nella comunione del discepolato tra pari, il memoriale della cena di Gesù, senza cadere nel clericalismo e nel carattere sacrificale della messa romana.

4 – A che punto siamo

Dobbiamo rileggere il Concilio Vaticano II e la Conferenza Episcopale di Medellín che lo ha tradotto e aggiornato in America Latina, a partire da una Chiesa che sia comunione di comunità organizzate in modo sinodale, come minoranze abramitiche profetiche nella diaspora di un mondo laico. Per questo, dobbiamo superare gli schemi e le visioni ecclesiali della cristianità che ancora dimorano dentro di noi...

A partire dagli anni '60 abbiamo imparato a distinguere tra ecumenismo ed ecumenicità. Mentre l'ecumenismo riguarda l'attività interecclesiale o interreligiosa, l'ecumenicità è più una dimensione della fede presente trasversalmente in tutto il nostro modo di essere e di agire, corrispondendo in maniera profonda all'antico concetto di cattolicità ben al di là dell'ecclesiasticismo.

La preoccupazione permanente, radicale e profonda dell'ecumenicità è legata al carattere laico della fede, senza cui non è possibile superare l'ecclesiocentrismo cattolico-romano, evangelico e pentecostale.

È proprio questa apertura al principio pluralista, in tutti i suoi livelli e aspetti, ad aiutare la Chiesa stessa a rinnovarsi e ad assomigliare maggiormente al movimento di Gesù, il quale, al momento di scegliere i segni distintivi propri della sua cultura religiosa, optò per il battesimo, un rituale che non proveniva dalla religione ufficiale ma dalla cultura popolare, e propose ai discepoli il Padre Nostro non in ebraico, ma in aramaico, la lingua della vita quotidiana.

È necessario recuperare l'attenzione all'interculturalità che è stata vissuta da molti dei nostri pastori e delle nostre comunità fino agli anni '80.

La posta in gioco è la costruzione di un'ecclesialità che riprenda la dimensione politico-liberatrice ed ecologica propria della fede evangelica, a partire dai movimenti popolari e dalle comunità periferiche. Supereremo l'ecclesiocentrismo solo se saremo capaci di fare un passo oltre sulla via della laicità e dell'immersione nella sfera sociale e politica, come pure di un modo di vivere la fede cristiana che non separi ma integri la dimensione interculturale e quella interspirituale.

Attualmente, nelle diocesi e nelle comunità cattoliche, si moltiplicano gli incontri e i dibattiti sul tema del Sinodo e della sinodalità. Questi incontri sono positivi ed è bene che si organizzino. Tuttavia, affinché abbiano un effetto reale, devono essere preceduti da una riflessione che ci porti a individuare la cultura religiosa della cristianità che ancora esiste in noi e nel nostro modo di comprendere la fede, nonché a rendere più visibili le piccole esperienze ecclesiali che nascono e si sviluppano in una direzione nuova e profetica.

Infatti, anche nel quadro di questa realtà ecclesiale sempre più complessa e difficile, molti fratelli e sorelle svolgono un lavoro meraviglioso, sfruttando le fessure e le crepe all'interno dell’attuale sistema chiuso. Rimanendo dentro il sistema e, allo stesso tempo, aprendo nuove strade, essi rendono possibili processi in grado di aiutare le pastorali sociali e i movimenti popolari ad andare avanti. Dobbiamo sostenere e rafforzare sempre più questi cenacoli di resistenza, queste esperienze ecclesiali che vanno oltre la cristianità, in direzione della costruzione di un nuovo stile di Chiesa e di missione.

Nonostante abbiano convissuto per secoli con la vecchia cristianità, molti fratelli e sorelle cattolici ed evangelici delle comunità nere e indigene hanno sempre saputo vivere la fede all'interno di questa ecumenicità che va oltre i parametri della cristianità. Tuttavia, operatori di pastorale clericali e laici clericalizzati hanno difficoltà a comprendere queste esperienze.

Nel 1992, durante l'8° Incontro Interecclesiale delle Comunità Ecclesiali di Base a Santa Maria sul tema: “Il popolo di Dio che rinasce dalle culture oppresse”, con l’accento su neri, indigeni, donne, lavoratori e migranti, il vescovo locale invitò vescovi e pastori a salire sul palco e a presentarsi al popolo (a quel tempo, agli incontri interecclesiali venivano ancora invitati pastori evangelici e a Santa Maria erano quasi 20).

Tuttavia, quando tra loro apparvero quattro o cinque mães de santo e un paio di pajés indigeni, il vescovo impedì loro di salire sul palco con l'argomento che l'incontro era di natura ecumenica, non interreligiosa. Non servì a nulla che le mães de santo spiegassero di essere allo stesso tempo autorità religiose del Candomblé e rappresentanti delle CEB. Né che gli sciamani in digeni insistessero di essere pajés in quanto cristiani e cristiani in quanto pajés. Fu loro impedito di salire sul palco. Tutti i consiglieri e le consigliere dell'incontro interecclesiale presenti solidarizzarono con i leader spirituali afro e indigeni che non erano stati riconosciuti come cristiani.

Personalmente, chiesi al vescovo che era mio amico:

- Se ci fosse il Dalai Lama, lo inviterebbe a salire sul palco e a presentarsi al popolo?

Mi rispose: Certo.

Continuai: - E se ci fosse il rabbino capo della sinagoga?

Rispose: - Anche in questo caso.

- E perché non una mãe de santo?

- Per via del sincretismo...

A distanza di oltre trent'anni, non è detto che anche i cari compagni dei nostri gruppi pastorali accetterebbero di ripensare la questione al di fuori del quadro dei modelli della vecchia cristianità. Ma, senza di questo, non andremo lontano...

Di per sé, le religioni indigene e nere non hanno bisogno di noi o della nostra pastorale per vivere i propri valori e mantenere la propria ricchezza spirituale. Siamo noi che abbiamo bisogno di imparare da loro per vivere la nostra fede cristiana, partendo dall'ecumenicità e dal principio pluralista. Sono loro che possono aiutarci ad andare oltre la vecchia cultura religiosa della cristianità.

Questa cultura ha spinto un gruppo significativo di cristiani e cristiane ad abbandonare la Chiesa. Perché se è vero che molti, per convinzione interiore, non vogliono legarsi ad alcuna Chiesa, come è loro diritto, ci sono anche molte altre persone, soprattutto giovani, che entrano a far parte di gruppi o pastorali sociali ma poi non riescono a sopportare il peso delle istituzioni ecclesiastiche, colpiti dall'autoritarismo dei sacerdoti o dall'ipocrisia che percepiscono negli ambienti ecclesiastici o anche dal fatto che la routine delle messe, delle benedizioni e delle novene non riesce più a nutrire il loro bisogno spirituale. Molti giovani, desiderosi di una spiritualità profonda, si sentono in questa condizione.

La cultura religiosa della cristianità non permette alla maggior parte degli ecclesiastici di rendersene conto e di correre ai ripari, mentre alcune persone attente alle crepe del sistema religioso dominante costituiscono gruppi di vecchi militanti e leader storici alla ricerca di un modo di vivere la fede e la spiritualità nella comunione al fine di testimoniare il regno divino senza alcun legame istituzionale con il clero e con i gruppi ufficiali della Chiesa.

Riprendere il dialogo con questi gruppi può dare nuovo slancio all'intera Chiesa. Come ci ha sempre insegnato la teologia, la salvezza viene sempre, per così dire, “dall'esterno”. Le Chiese cristiane devono sempre ampliare i propri confini, non in termini di proselitismo, ma attraverso il dialogo umile e l'ecumenicità vissuta nella spiritualità macroecumenica e interculturale.

Nei questionari preparatori al processo sinodale sulla sinodalità, si insisteva affinché fossero consultate anche persone che si erano allontanate dalla comunità e dalla pastorale abituale.

Di fatto, nella storia della Chiesa, i grandi movimenti storici di spiritualità laica, all'epoca sorti ai margini della Chiesa ufficiale, hanno contribuito a darle nuovo ossigeno, fino a quando non ne sono stati anch'essi cooptati, come il monachesimo di Antonio, Pacomio e persino di Benedetto da Norcia, e gli ordini mendicanti di Francesco d'Assisi e di altri.

Come diceva papa Francesco, è necessario promuovere una Chiesa in uscita, a partire dalle periferie del mondo. Quindi, chissà se le persone e i gruppi che, di fatto, si sono allontanati dall'istituzione ecclesiastica possano aiutarci a rivitalizzare una Chiesa più vicina al Vangelo e liberata dai vincoli della cristianità, della sua cultura religiosa e della sua spiritualità.

Sicuramente, voi che leggete questa riflessione vi starete chiedendo: in questa realtà ecclesiale, perché dovrebbe valere la pena di restare saldi nell'amore per la Chiesa e nella nostra appartenenza ad essa? Come amava dire dom Hélder Câmara, ci sono mille ragioni per credere e sperare. Ci sono molte persone che si dedicano alla causa del progetto divino nel mondo e lo fanno come Chiesa. Ci sono opere belle e meravigliose che ci animano nel cammino ecclesiale.

Ricordo che nel 1998, quando vivevo ancora a Goiás, passando per Recife feci visita a dom Hélder Câmara, con cui avevo lavorato nella mia giovinezza e che nel 1969 mi aveva ordinato sacerdote. Aveva già 89 anni e viveva nella sacrestia della Igreja das Fronteiras, fragile e silenzioso. Quasi non parlava più. Ma mi raccontarono che, prima della mia visita, aveva ricevuto un giornalista che gli aveva chiesto:

- Dom Hélder, sin da giovane lei si è dedicato al servizio dei poveri e al rinnovamento della Chiesa. Ora, dopo tanti anni, quanto pensa di aver ottenuto? Guardando indietro, ritiene di aver avuto più vittorie o più fallimenti?

La sua risposta fu chiara e immediata:

- Figlio mio, Dio non mi ha mandato a quantificare successi e sconfitte. L'apostolo Paolo scrisse ai Corinzi: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1 Cor 3, 6). Quello che posso garantirle è che fino al mio ultimo respiro continuerò a lottare per Colui in cui credo e per la sua causa nel mondo».

Che questa sia la nostra speranza e la nostra gioia!

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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