“DEMOCRATICO” A CHI?
- Il partito democratico degli Stati Uniti non ha una tradizione di rispetto dell’autodeterminazione dei popoli. Che farà obama?
Tratto da: Adista Contesti n° 84 del 29/11/2008
Questo articolo Di Elaine Tavares è stato pubblicato sul settimanale brasiliano “brasil de fato” (6/11/2008). Titolo originale: “barak obama: mais do mesmo?”
Bisogna essere accecati dall’ideologia disseminata dai mezzi di comunicazione per credere che Obama possa smettere di seguire la natura del suo partito.
Ho seguito le dichiarazioni dei vari leader latinoamericani sul nuovo presidente degli Stati Uniti e posso concluderne solo che sono estremamente diplomatici ed educati. Penso che in una situazione come questa, quando un nuovo presidente assume l’incarico, è una questione di bon ton dare il benvenuto e fare pronostici di mutamenti, di buon governo e di buon auspicio. Ma, per come la vedo io, credo che i leader di Paesi importanti come il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador e il Paraguay – che stanno virando la barra e facendo passi nella direzione di un altro modo di organizzazione della vita – dovrebbero essere prudenti.
È un fatto che l’elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti è un avvenimento storico. Chi conosce le pratiche del Ku Klux Klan e la faccia razzista del Paese che ha condotto anche una sanguinosa guerra civile fra il 1861 e il 1865, causa di quasi un milione di morti, capisce l’importanza di questo evento. Ma a che vale essere nero e rompere un paradigma se non si rompe la politica di quello che è uno dei partiti più antichi del mondo, nato da una dissidenza all’interno di quello che era il Partito Democratico-Repubblicano fondato da Thomas Jefferson nel 1793? Questo vogliamo discutere!
Storia di conservatorismo
Sulle elezioni negli Stati Uniti la televisione è stata esauriente. In generale, i direttori dei giornali più importanti della sera hanno dato fondo alla loro visione colonialista. Neppure hanno parlato degli altri candidati, come se stessero partecipando alla contesa solo i partiti Repubblicano e Democratico. Perché c’erano più candidati in corsa: due erano indipendenti (là è possibile candidarsi anche senza un partito), uno del Partito della Costituzione, uno del Partito della Libertà, uno del Partito Socialista e una candidata del Partito Verde. Cosa più grave, nel reportage della Rete Globo, William Bonner ha suddiviso il Congresso statunitense in settore democratico, settore repubblicano e una piccola parte senza posizione. Ora, il 4% non è senza posizione: i componenti hanno posizioni molto chiare, differenti dai partiti dominanti. Già il giorno dell’elezione alcuni giornalisti sono arrivati a momenti di apoteosi, vibrando di piacere per quello che chiamavano il regime più democratico del mondo. Fin qui tutto bene, sono propagandisti prezzolati. Svolgono il loro compito. Per questo tocca alla stampa alternativa adottare uno sguardo critico.
La storia del popolo degli Stati Uniti vanta un passato glorioso. Il Paese è stato la prima colonia in questo continente a liberarsi e a creare una nazione, il tutto frutto di movimenti e rivolte popolari, come ben racconta lo storico Howard Zinn nel suo libro L’altra storia degli Stati Uniti. Ma quello che è rimasto negli annali e nella memoria della gente è stata la bravura e l’eroismo dei Padri della Patria, come George Washington, Benjamin Franklin, Abraham Lincoln e Thomas Jefferson. Il risultato di questo momento fondante della democrazia è stata la barbara distruzione dei popoli originari e l’arricchimento di queste dirigenze.
La Costituzione del Paese, datata 1787, che ancora oggi fa inumidire gli occhi ai difensori della libertà, è stata, secondo lo storico Charles Beard citato da Zinn, un documento che è servito a rispondere agli interessi ben precisi di determinati gruppi dominanti e che ha lasciato fuori i desideri di praticamente metà della popolazione. Sono stati questi interessi a condurre alla fondazione del Partito Democratico-Repubblicano nel 1793, compattando la classe dominante fino al 1836, quando ci fu una spaccatura sulle posizioni di Andrew Jackson che, allora presidente, decise di chiudere con il Collegio Elettorale e di non accettare le decisione del Congresso, oltre a permettere l’invasione, da parte di bianchi, di migliaia di ettari di terre indigene, cacciando i proprietari in luoghi lontani dai loro originari. È stato durante il suo governo che ha avuto luogo la diaspora della valorosa nazione Cherokee. Con la creazione del Partito Democratico, Jackson è passato alla storia come primo presidente di questo partito.
La genesi della divisione non ha avuto perciò niente a che vedere con le divergenze ideologiche di fondo, sebbene alcuni analisti sostengano che il partito sia uscito dall’orbita conservatrice, passando a quella liberale, all’inizio del secolo XX. Ma i fatti dimostrano che non è affatto così.
La politiche dei democratici
Il secondo presidente democratico che ha avuto un ruolo speciale nella vita dei popoli dell’America Latina è stato Thomas Woodrow Wilson, che ha governato gli Stati Uniti dal 1912 al 1921, attraversando la prima guerra mondiale. Aveva giurato che avrebbe mantenuto il Paese fuori dal conflitto, ma finì con il giustificare l’entrata in guerra con lo stesso vecchio mantra difeso da quasi tutti i presidenti interventisti: è per garantire la democrazia nel mondo. Nel suo Paese è sempre stato definito un idealista e ha perfino vinto il Nobel per la Pace per il suo contributo alla fine della prima guerra mondiale. Durante i suoi mandati (ne ha compiuti due) ha parlato in lungo e in largo della dottrina dell’autodeterminazione dei popoli, un bel discorso che egli stesso non ha mai messo in pratica. Wilson ha guidato vari interventi militari in America Latina, invadendo il Messico durante la sua storica rivoluzione popolare nel 1914, e dopo il Nicaragua, Panama, la Repubblica Dominicana e Haiti. I motivi? Garantire la democrazia. Questa poi!
Dopo di lui un altro presidente democratico ha assunto un importante ruolo nella vita dei popoli. È stato Franklin Delano Roosevelt, che ha affrontato la grande crisi del ’29 mettendo in atto quello che è passato alla storia come new deal, una specie di nuovo patto con riforme che hanno in qualche modo stabilizzato il sistema per la protezione dello stesso. Il suo programma proteggeva i grandi signori della terra e l’imprenditoria, ma offriva anche sufficienti aiuti alle persone ridotte in povertà, evitando con ciò un’esplosione sociale. È stato tra l’altro durante il suo mandato che gli Stati Uniti hanno vissuto la seconda grande guerra, considerata una delle più partecipate in quel Paese, visto che sono stati mobilitati oltre 18 milioni di soldati e grande parte della popolazione ha dato il suo contributo con l’acquisto di bonus. L’economia reagì e la crisi è stata superata. È stato Roosevelt che, insieme a Churchill e Stalin, ha firmato il Trattato di Yalta, che in pratica ha diviso il mondo in socialista e capitalista, stabilendo zone intoccabili di influenza, la famosa Guerra Fredda. È stato durante il suo governo che è stato firmato quella specie di decreto (Ordine Esecutivo) che concedeva all’esercito statunitense di catturare senza ordine giudiziale o accusa formale ogni e qualsiasi giapponese che vivesse nella costa est del Paese. In totale sono stati confinati in campi di concentramento, all’interno degli Stati Uniti, più di centomila fra uomini, donne e bambini, tre quarti dei quali erano nati nel Paese.
Roosevelt muore nel 1945 e prende il suo posto un altro democratico, Henry Truman, responsabile questi del maggior crimine mai perpetrato: la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, che uccise più di 200 mila civili nel momento in cui il Giappone si era praticamente arreso. È stato allora, durante il suo governo, che è stata creata la Cia, agenzia di intelligence responsabile praticamente di tutti i golpe contro la democrazia nei Paesi dell’America Latina. È di questo democratico anche la famosa dottrina Truman, nient’altro che una auto-concessione del diritto di intervenire in qualsiasi Paese che osasse avventurarsi sulla strada del socialismo. Grazie ad essa, gli Usa hanno invaso la Corea, l’Iran, il Vietnam e il Guatemala e hanno messo bocca in altri Paesi della nostra America, finanziando gruppi anticomunisti. Ha ideato anche il Piano Marshall, che precedeva l’invio di denaro ai Paesi europei, comprando la coscienza dei governanti perché non aderissero al socialismo. È stato l’inizio del processo di attuazione dei disgraziati assassini economici, denunciati da John Perkins (autore di “Con-fessioni di un sicario dell’economia”, ndt), che come tale ha agito per parte della sua vita. In quel periodo gli Stati Uniti hanno invaso la Jugoslavia e la Grecia, in nome della democrazia.
Un altro momento cruciale della storia statunitense è stato vissuto durante questo governo democratico: l’istituzione del Comitato di Indagine delle Attività Anti-Americane, comandato dal senatore Joseph MacCarthy, una specie di caccia alle streghe allo scopo di arrestare e distruggere qualsiasi persona fosse sospettata di avere idee comuniste. Sono stati gli anni d’oro dell’impero, pagati con molto dolore, tanto dai cittadini, quanto dalle popolazioni di vari Paesi del mondo.
Un altro presidente democratico con un curriculum nient’affatto pulito è John Fitzgerald Kennedy, che malgrado ancora oggi sia considerato il prediletto d’America, ha dovuto piegarsi alle conseguenze del fallito tentativo di invasione di Cuba organizzato dalla Cia proprio all’inizio del suo governo. È lui che anima il conflitto in Vietnam, che più tardi esploderà in una guerra di 10 anni, e invade il Laos. In America Latina crea l’Alleanza per il progresso, che altro non è se non il seguito del Piano Marshall: denaro a pioggia per comprare la fedeltà delle élite governative dei Paesi che gli Usa considerano il loro “cortile di casa”.
Ancora negli anni ’60 troviamo un altro democratico al potere, Lyndon Baines Johnson, che assume la presidenza dopo la morte di Kennedy. Con lui gli Stati Uniti ampliano il conflitto con il Vietnam, sempre con lo stesso vecchio ritornello di garantire la democrazia. Invadono anche Panama, la Repubblica Dominicana e la Cambogia in nome della libertà.
Jimmy Carter è un altro democratico al potere ed è stato uno dei pochi che ha tentato le strade della pace. Per questo è considerato da alcuni analisti come il più debole presidente d’America. Ha provato a mediare fra Israele e Palestina e ha ottenuto la pace fra Egitto e Israele. Ha anche firmato, con Omar Torrijos, un trattato che restituiva il canale di Panama al suo popolo, e ha cercato di metter su una politica di distensione con i Paesi comunisti. Ha sottoscritto trattati con la Cina, ha cercato di ridurre le armi nucleari e ha tentato un avvicinamento con Fidel Castro. Anche così ha dovuto fronteggiare una grande tensione al momento del sequestro di statunitensi in Iran e il suo governo ha ottenuto grandi risorse per il potenziamento militare. È stato con Carter che è iniziato in America Latina un processo di apertura, quando quasi tutti i Paesi vivevano dittature duramente imposte dagli Stati Uniti. Carter non è visto, all’interno, proprio come un buon esempio e, secondo i suoi avversari, è stato molto debole durante la rivoluzione iraniana, oltre a lasciare, senza muover guerra, che l’Unione Sovietica occupasse l’Afghanistan.
Il più recente democratico al potere è stato William “Bill” Jefferson Clinton, che ha governato per due mandati, fra il 1993 e il 2001. Visto come un simpatico ragazzo, charmant e carismatico, ha governato aggressivamente nel campo della politica estera. Ha invaso l’Iraq, Haiti, lo Zaire, la Liberia, l’Albania, la Colombia e l’Afghanistan. Un curriculum niente male per una faccia buona.
E ora, che sarà di Obama?
Quanto detto è un brevissimo riassunto della storia dei democratici – che praticamente non si differenziano in nulla dai repubblicani – che hanno governato il Paese secondo la stessa logica del “destino manifesto”, cioè della missione, affidata agli Stati Uniti, di guardiani della democrazia mondiale, che nella loro ottica autorizza il Paese ad intervenire a suo piacimento. È chiaro che per democrazia è necessario intendere ogni e qualsiasi minaccia agli interessi delle grandi corporazioni, giacché quello che è in gioco raramente è l’interesse della gente, quanto piuttosto quello delle imprese.
Così, le speranze riposte sullo storico presidente nero del Paese-poliziotto del mondo devono essere relativizzate. L’esperienza del democratico Jimmy Carter, ridicolizzato ancora oggi per non aver intrapreso alcuna guerra, non è l’esempio che gli statunitensi avrebbero piacere di veder seguito. È anche bene pensare che lì è in atto una crisi finanziaria senza precedenti e che è luogo comune dell’impero cavarsi dalle crisi con una buona guerra. Come diceva bene Roosevelt, il Theodore, nel 1897, in una lettera ad un amico: in tutta confidenza, io quasi gradirei qualche guerra, perché credo che il Paese ne abbia bisogno. Bisogna essere accecati dall’ideologia disseminata dai mezzi di comunicazione per credere che Obama, solo perché nero e perché viene da classi povere, possa smettere di seguire la natura del suo partito. Basta aspettare, e già vediamo le sue posizioni su Iraq, Palestina, Venezuela, Cuba, solo per citarne alcune. Il tempo dirà.
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