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QUELLA PERDUTA LEGGEREZZA DELLA VITA

- Mi sta a cuore

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 93 del 20/12/2008

“Adriana, ricordi di quando ridevamo di niente?” Con tali parole una mia cugina morente mi ha accolto quando, molto tempo fa, sono andata a farle visita per l’ultima volta. Questa espressione “ridere di niente” in questi anni mi è risuonata dentro, perché l’ho sentita legata al ricordo  di una perduta leggerezza della vita.

A volte guardo i miei figli e vedo che anche loro “ridono di niente” e mi viene da chiedere : “di cosa ridono?” Osservo che il loro non è un riso costruito, che scaturisce, come per la barzelletta, dalla visione sarcastica o cinica del mondo, ma piuttosto nasce dalla leggerezza di chi sa aprirsi alla vita con stupore, di fronte alle novità e alle contraddizioni del reale. Una leggerezza che noi tutti dovremmo recuperare perché lo sguardo di stupore sul mondo può essere la lente attraverso la quale affrontare il nostro quotidiano partendo dalla passione per la vita stessa.

Noi dobbiamo imparare ad amare la vita e a coglierne la luce non perché attanagliati dalla paura della morte, ma perché accesi dalla passione per la stessa esistenza. Se infatti il quotidiano può diventare il luogo della solitudine, del rimpianto, della delusione, esso può essere anche il luogo delle relazioni, il luogo dell’incontro, della festa… della possibilità di “fare casa”.

Che cosa significa “fare casa”? Significa non subire il quotidiano, ma esserne protagonista: sono io che, nei gesti della cura (nel preparare il cibo, nell’accudire, nel lavoro che giornalmente svolgo) do valore al tempo presente che vivo, do senso alle cose che faccio, introducendo bagliori di vita nell’oscurità dell’esistenza, nell’apparente inutilità del gesto quotidiano. Certo il tempo che ogni giorno vivo non è  “eccezionale”, ma è il tempo nel quale posso tessere rapporti di comunione, di dialogo, di familiarità, di amore. Ed è il “mio” tempo, l’unico.

D’altra parte lo stesso Gesù non aveva forse numerosi e frequenti gesti di quotidianità? Non “faceva casa” con chiunque incrociava nel suo cammino? Lo incontriamo, infatti, nelle case e nelle strade a  mangiare e bere con discepoli e amici, a offrire gesti di tenerezza, di accoglienza a tutti, donne e uomini. Egli fa proprio l’invito del Quelet: “Mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto”. E i discepoli di Emmaus non lo hanno forse riconosciuto dai gesti del quotidiano?

 


* Teologa e docente di storia del cristianesimo all’università Federico II di Napoli

 

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