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Ricostruzione e riconciliazione strada obbligata

- Gaza

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 6 del 17/01/2009

Václav Havel, è stato presidente della Repubblica Ceca; principe Hasan bin Talal, è presidente del Forum per il Pensiero Arabo e presidente emerito della Conferenza mondiale delle Religioni per la pace;  Hans Küng, presidente della Fondazione per un´etica globale e professore emerito di Teologia ecumenica all´università di Tübingen; Yohei Sasakawa, è presidente della Sasakawa Peace Fondation; Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace; Karel Schwarzenberg, ministro degli esteri della Repubblica Ceca.

 

 

Perdere tempo è sempre deplorevole. Ma il tempo perso in Medio Oriente è anche fonte di pericolo. È trascorso un altro anno senza alcun consistente progresso per superare le divisioni tra palestinesi e israeliani.

Le incursioni aeree in atto su Gaza, così come i continui lanci di razzi contro Askelon, Sderot e altre città del Sud di Israele stanno a dimostrare l’estrema gravità della situazione. L’impasse esistente tra Israele e la leadership palestinese di Gaza sulla questione della sicurezza ha condotto tra l’altro al blocco degli aiuti alimentari israeliani alla popolazione di Gaza, riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di persone. Sembra che nelle sue trattative con i palestinesi di Gaza Israele sia tornato a impuntarsi sul primato della “hard security”: un’impostazione che porta solo a precludere ogni altra opportunità di segno non violento, ogni soluzione creativa al contenzioso israelo-palestinese.

Con l’inasprimento della loro posizione i politici israeliani restano legati alla prospettiva di ulteriori insediamenti israeliani in Cisgiordania. E molti palestinesi, messi in questo modo con le spalle al muro, incominciano a non vedere altra scelta, per tradurre in realtà le loro aspirazioni nazionali, al di fuori delle tattiche più radicali. Da qui il rischio di sempre nuove violenze. È quindi fondamentale, per i partner regionali di Israele come per gli attori internazionali, comprendere che i palestinesi non potranno comunque essere distolti dall’obiettivo strategico della conquista di uno Stato indipendente. Il popolo palestinese non abbandonerà mai la sua lotta nazionale.

Ma israeliani e palestinesi devono rendersi conto che non conseguiranno mai i loro obiettivi a lungo termine con il solo uso della forza. È necessaria invece l’adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa, volte ad evitare le esplosioni di violenza. E sebbene talora non si possa escludere l’uso della forza, solo la via del compromesso verso una soluzione integrata può produrre una pace stabile e duratura.

Perché un processo di risoluzione di un conflitto possa avere esito positivo, è necessario che le energie generate dallo scontro siano canalizzate verso alternative costruttive e non violente. Questo dirottamento delle energie conflittive è possibile in ogni fase del ciclo dell’escalation; ma quando non vi è stata, fin dai primi segnali di tensioni, un’azione preventiva per affrontare i problemi e costruire la pace, soprattutto allorquando il conflitto si intensifica e degenera nella violenza, è necessario ricorrere a un qualche tipo di intervento.

Solo allora diventa possibile instaurare un processo di mediazione e conciliazione, avviare il negoziato, l’arbitrato e la collaborazione in vista della soluzione dei problemi. In definitiva, la ricostruzione e la riconciliazione sono le sole vie percorribili per giungere a una stabilità che comunque non può essere imposta.

In tutto questo non c’è nulla di sorprendente. E tuttavia è il caso di chiedersi per quale motivo non vi sia stato un impegno più concertato e concentrato per trasformare la situazione a Gaza e in Palestina. Si è parlato di un protettorato internazionale, per proteggere i palestinesi sia dagli elementi più pericolosi al loro interno che dagli israeliani, e fors’anche gli israeliani da se stessi; ma questa proposta ha ricevuto scarsa considerazione.

Ciò che preoccupa in particolare chi si impegna nella risoluzione delle crisi internazionali è l’assenza di un tentativo coordinato di costruire un accordo tra israeliani e palestinesi, in vista di una struttura basata su un approccio inclusivo, interdisciplinare e sistemico, in grado di spostare le variabili e di condurre a una pace che entrambi i popoli possano considerare giusta ed equa.

Uno degli elementi chiave per una struttura di riconciliazione è la crescita economica. Come ha ripetutamente sottolineato la Banca Mondiale, esiste una stretta correlazione tra povertà e conflitti. Ecco perché una soluzione politica sostenibile tra palestinesi e israeliani non può prescindere dal superamento del deficit di dignità umana, del divario esistente tra una società prospera e una popolazione priva di tutto. Ma gli sforzi in questo senso sono stati finora frammentari, e quindi insufficienti a consentire la speranza reale di una vita migliore.

È necessario che tra israeliani e palestinesi si stabilisca un dialogo costruttivo, al di là dell’enorme divario sociale che li divide; e allo stesso modo è imprescindibile il dialogo tra le autorità e la gente comune, gli abitanti di queste zone che vivono nella confusione su quanto si sta facendo in loro nome. È necessario ricostruire la fiducia per consentire alle parti in causa di individuare le vie per il superamento delle ostilità del passato. Solo l’avvio di un nuovo clima di fiducia pubblica permetterà di procedere a una diagnosi corretta dei problemi, per poterli affrontare efficacemente.

Naturalmente, tutte le parti in causa devono comprendere l’esigenza di sicurezza degli israeliani; e allo stesso modo, le misure di costruzione della fiducia hanno bisogno del contributo di tutti. Ma più di ogni altra cosa c’è bisogno oggi di un chiaro messaggio ad indicare che non la violenza, ma il dialogo è la via maestra da seguire in questo periodo di grandi tensioni.

Quello che è in gioco a Gaza è l’etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l’arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignità umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l’entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la “Mezzaluna fertile” del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina.

Copyright: Project Syndicate 2008, traduz. di Elisabetta Horvat, pubb. su La Repubblica del 3 gennaio 2009

 

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