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Lettera aperta alle donne che amano dei preti

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 22 del 14/06/2014

Care donne, ho esercitato il ministero presbiterale per 17 anni, dai 24 ai 41 anni, dal 1982 al 1999, quando ho chiesto al mio vescovo, il card. Martini, un anno di sospensione dal ministero. Al termine di questo anno, nel 2000, ho deciso di chiudere la mia esperienza di ministero. Nel 2001 ho chiesto la dispensa che mi è arrivata nel giro di pochi mesi. Nel gennaio del 2002 ho celebrato il sacramento del matrimonio sine pompa così come chiede la dispensa, rigorosamente in latino. Sono marito e padre di due splendidi figli di 12 e 8 anni e ho la fortuna di avere ricevuto sei sacramenti (per il settimo c’è tempo…).

Mi è sempre piaciuto fare il prete e l’ho sentito come il senso più profondo della mia vita: ho cercato di vivere con radicalità la sequela di Gesù da prete e ancor oggi affermo che fare il prete è bello. Ero ben cosciente al momento dell’ordinazione di quanto la Chiesa mi chiedeva ed ero contento di accettare tutto quanto mi veniva proposto. Non ho fatto il voto di povertà, castità e obbedienza perché non sono un religioso, ma ho promesso nelle mani del mio vescovo di essere obbediente a lui e ai suoi successori (ma non ho fatto in tempo…), di vivere povero e celibe. Al momento della richiesta della dispensa mi è stato chiesto se la vocazione era mia o dei miei genitori e se sapevo intendere e volere quando ho compiuto il grande passo: ebbene la vocazione era ed è solo mia e a 24 anni sapevo bene sia intendere che volere (non vi era alcun vizio né di forma né di sostanza).

La vita presbiterale mi ha decisamente appassionato e ho cercato di viverla tutta dedicata al servizio della gente e in particolare dei poveri e degli ultimi. Era proprio bello, ma c’era un ma. La mia vita affettiva non era in sintonia con il resto della mia vita, bella ed appassionante. Probabilmente nel mio cammino di crescita umana e cristiana durante gli anni di seminario non sono riuscito (e forse non sono stato aiutato) a far crescere con realismo la mia affettività. Era ovvio e scontato che avrei vissuto da celibe, per cui non ho mai fatto né l’adolescente, né il “giovanotto”; ho vissuto da seminarista (le donne sono il totalmente altro) e ci riuscivo anche bene. 

Poi però la vita ti presenta il conto e non puoi mai dare nulla per scontato, per cui il “problema affettivo” mi è scoppiato fra le mani. Ho subito cercato il confronto con il mio vescovo, con il confessore, con il padre spirituale, ma i nodi irrisolti rimangono tali. Solo quando ho trovato una donna che mi ha detto, o meglio mi ha scritto, «io mi sono innamorata di te; tu che fai?», ho preso fra le mani la mia affettività e mi sono chiesto: «Tu (cioè, io) che fai?». Sono stato non male, ma malissimo. Ho sofferto come un cane, ho avuto momenti terribili di depressione. Per fortuna ho avuto al mio fianco un vescovo di nome Martini e il suo vicario per i preti di nome don Franco, e quindi dopo un periodo terribile ho chiesto di fermarmi per cercare di capire. 

Adesso sono un marito felice (anche se devo proprio dire che il matrimonio è decisamente impegnativo e per fortuna ci sono arrivato dopo i 40 anni perché prima non era maturo per una scelta così importante) e un papà felice. La mia fortuna più grande è stata aver trovato una donna forte e determinata che mi ha detto quel che provava per me e che mi ha chiesto: «Tu che fai?». Non c’era spazio per sconti, sotterfugi, scorciatoie, doppie vite o strade: ero chiamato a scegliere. È stata una scelta dura, durissima, pagata a caro prezzo, ma ne valeva la pena.

Care donne, chiedete al vostro uomo «ma tu che fai?». Dategli lo spazio e tutto il tempo necessario perché possa scegliere ciò che è “più bene” per lui; che si prenda gli strumenti che servono, i tempi che vuole (tanto lui è pagato anche se non lavora), ma chiedetegli di arrivare a una scelta – la più chiara e la più limpida possibile – e poi rispettatela. Siamo chiamati a vivere alla luce del sole: è un diritto dei preti, ma soprattutto è un diritto vostro! Sarete sicuramente più felici di quanto non siete adesso.

Risolvete il vostro problema personale. Poi, solo se tranquilli e sereni, potremo – se lo vorranno i nostri confratelli ancora in attività – ragionare sul celibato, ma soprattutto ragionare sulla maturità umana e sulla responsabilità richiesta alle persone adulte.Vi auguro di avere degli uomini che vi amino talmente tanto da rispettarvi e da dare dignità al vostro amore e dei vescovi che siano illuminati così come lo era il mio.

* Prete, felicemente sposato… in congedo

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