Brexit. E ora?
Tratto da: Adista Notizie n° 25 del 09/07/2016
C’è un antico adagio in Gran Bretagna che recita più o meno così: “Nebbia sulla manica, il continente è isolato!”. Osservando i risultati del referendum consultivo sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, svoltosi lo scorso 23 giugno, pare che la mentalità non sia cambiata granché. Appare chiaro che la vittoria del fronte del leave altro non è che la conferma di una forte tradizione storica che ancora alberga in buona parte dell’opinione pubblica britannica, sempre restia a confrontarsi col resto del mondo in maniera paritaria, perché abituata da secoli a considerarsi una nazione guida per il resto d’Europa e forse pure per il resto del mondo. Una mentalità diffusa che la globalizzazione e la modernità non hanno ancora scalfito del tutto. Basta analizzare la distribuzione geografica del voto per comprendere che laddove c’è una forte integrazione di culture diverse, come a Londra, o in Scozia e in Irlanda del Nord, il fronte del remain ha sovrastato, e di molto, i sostenitori del leave. Inoltre i giovani abituati a quell’Europa unita in cui sono cresciuti e maturati hanno votato in gran parte per restare nell’UE, almeno quei pochi (il 36%) che non hanno disertato le urne. Al contrario dei più anziani (l’83% si è recato al seggio) che invece hanno deciso in maggioranza per l’abbandono.
E ora cosa accade? Non è facile prevederlo, perché la situazione è in continuo divenire e poi fino a oggi nessuno dei 28 Paesi aderenti all’UE ha mai usufruito dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di una nazione dall’Unione. Il Paese che decide di recedere, notifica tale intenzione al Consiglio Europeo, il quale a sua volta presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo teso a definire le modalità del recesso. Ed è qui che si gioca la partita più importante, difatti Consiglio, Commissione e Parlamento Europeo premono affinché il governo inglese inizi quanto prima le pratiche burocratiche per il distacco dall’Unione. In questo modo manterrebbero una posizione negoziale forte che permetterebbe di infliggere alla Gran Bretagna condizioni economiche, ma non solo, particolarmente penalizzanti e che non sarebbero altro che una dimostrazione di forza anche nei confronti degli altri 27, ma soprattutto verso quei Paesi maggiormente euroscettici (della serie colpirne uno per educarne cento) che stanno pensando di imitare la secessione britannica, l’Olanda su tutti. Questa fretta auspicata mal si concilia con le dimissioni presentate dal premier inglese, David Cameron, che desidererebbe lasciare la gestione dell’uscita dall’UE al suo successore. Poi c’è la delicata questione del problema mercato unico che colpirà non poco gran parte delle aziende britanniche, che in alta percentuale esportano ciò che producono. Esse avrebbero bisogno di mantenere le attuali condizioni economiche per esportare in Europa, ma questo potrà accadere solo se la Gran Bretagna, ora che ha abbandonato l’UE, deciderà di entrare nell’Area Economica Europea (EEA: i Paese UE più Islanda, Norvegia e Lichtenstein), ma ciò comporterà più di un problema, perché essa subirà le regole del mercato unico senza poter partecipare alla loro stesura, inoltre pagherebbe all’EEA contributi economici analoghi a quelli che paga oggi all’UE (circa 4 miliardi di euro all’anno) e infine l’UE pretenderebbe che oltre alla libera circolazione di beni e servizi, il Regno Unito garantisse pure quella per le persone. Ma proprio questo era uno dei temi che ha fatto vincere i sostenitori del leave. E allora come la mettiamo?
Una previsione di carattere più generale forse si può azzardare. Probabilmente l’esito di questo referendum ha sancito l’inizio della fine del Regno Unito e la volontà di Scozia e Irlanda del Nord di restare nell’UE, anche a costo di rendersi indipendenti, ne è solo il prodromo.
Pierstefano Durantini è giornalista, aderente al gruppo romano di Noi Siamo Chiesa
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