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Dopo la batosta, una svolta. Ripartire da dove?
Questo articolo è tratto dal sito C3dem, "Costituzione Concilio e Cittadinanza. Per una rete tra cattolici e democratici". Il testo originale è consultabile a questo link.
Credo valga la pena soffermarsi ancora un poco sui risultati elettorali, anche se a distanza di qualche settimana. Perché una loro lettura depurata dall’emotività iniziale e anche dalle esigenze della cronaca e della battaglia politica contingente può dire qualcosa che a me pare più interessante. Cioè orientarci sul futuro, sulla classica domanda: e ora, che si fa?
Il confronto con i risultati del 2013 mi appare molto istruttivo. Ragionare sui numeri reali è sempre più utile che sulle percentuali: del resto, i sofisticati studiosi di flussi ci stanno dicendo molte cose più dettagliate, ma a me sembra che l’interpretazione generale sia istruttiva anche a occhio nudo. Considerato anche che in fondo quest’anno, a dispetto delle previsioni, l’astensionismo è cresciuto non in modo drammatico (sempre circa 1.100.000 voti in meno, comunque). L’opportunistica “coalizione” di centro-destra ha preso apparentemente 2.200.000 voti in più, ma 600.000 erano dell’Udc (separata nel 2013) e quindi scendiamo a 1.600.000 voti, che è il vero guadagno nazionale di Salvini (oltre ad aver sottratto 2.700.000 voti all’alleato storico Berlusconi, in una partita tutta interna alla destra). Vedremo invece da dove arrivano questi voti freschi.
Dal mio punto di vista, ovviamente la cosa più interessante è il risultato delle forze di centro-sinistra e sinistra. Qui siamo alla vera disfatta: il Pd ha perso da solo 2.500.000 voti. Liberi ed Eguali ha recuperato poco più dell’elettorato di Sel del 2013. Due fallimenti speculari. Il punto che non si è molto considerato generalmente nei commenti è però che nel 2013 Scelta civica e Futuro e libertà (i due partiti collegati a Monti e Montezemolo) avevano raccolto un rispettabile elettorato di circa 3 milioni di voti. Il Pd avendo sostanzialmente assorbito in termini politico-parlamentari questa eredità avrebbe dovuto recuperarne buona parte, anche per il posizionamento politico nel frattempo assunto. E invece solo circa un milione sono andati agli alleati centristi del Pd (Bonino ecc.). Quindi, altri 2 milioni si sono invece spostati presumibilmente per la gran parte a destra, nonostante la radicalizzazione maggiore del profilo del centro-destra attuale. Il Movimento 5 Stelle è cresciuto invece di poco più di due milioni di voti. Difficile non considerare come la gran parte vengano proprio da elettori democratici delusi (Ipsos stima almeno un milione siano di questa provenienza diretta).
Se stanno i numeri questi sono i due dati rilevanti, a parte una fuga nell’astensionismo che può aver toccato il centro come la sinistra. È da qui che bisogna partire per considerare la profondità della sconfitta, che segna un dato epocale. La sinistra più marcata e la sinistra moderata hanno ambedue fallito la prova. Si sono persi voti verso la protesta anticasta, senza recuperarne uno sul fronte cosiddetto moderato e presumibilmente istituzionale.
Qui a me pare si colga l’esito di una storia che non è contingente. Per intenderci, non si tratta di una sconfitta come le altre, in cui si possa pensare di raccogliere le forze, modificare qualcosa in termini di cariche politiche e di immagini, e ripartire per la rivincita prossima ventura. Mi pare invece il segnale che sia finita una storia. La storia di una sinistra che si è troppo identificata con l’establishment (politico ed economico), tentando al contempo di presentarsi come la forza capace di governare la globalizzazione in termini equi e accettabili anche alle persone non privilegiate. Il primo aspetto è apparso solare, il secondo è svanito nelle nebbie. Compatibilisti lo si è stati, riformatori molto meno. Non è storia di ieri, quindi, ma di un ciclo misurabile almeno sui venticinque o trent’anni.
Certo, l’attuale dirigenza del Pd e in particolare Renzi ci hanno messo del loro nell’accelerare processi, nel radicalizzare posizioni, nell’accentuare caratteri. Mi fermo solo sull’ultimo passaggio. Come è stato possibile immaginare una campagna elettorale impostata sul fatto che i governi di questa legislatura (non dimentichiamolo, dettaglio non insignificante: non governi del Pd, ma di compromesso con altre forze) avevano fatto le scelte migliori possibili e fatto “ripartire l’Italia”? Come è stato possibile giocare sul punto e mezzo di Pil recuperato, quando è del tutto evidente che la parte d’Italia che è ripartita e si è lasciata dietro le spalle la crisi è molto piccola, economicamente settoriale, geograficamente ristretta e socialmente segmentata? Il paese – nella sua media trilussiana – è ancora sotto di quasi sei punti dal 2008… Puntualmente si è avuta la verifica: il Pd ha vinto i collegi di Milano centro (e Roma centro): tra i pochi luoghi dove veramente si può parlare di un paese che è uscito dalla crisi.
Ma appunto, radicalizzate o involgarite, queste ultime vicende sono in realtà la coda di una storia più lunga, che ha mostrato definitivamente la corda. La possiamo definire la storia della sinistra moderata di vario orientamento degli ultimi trent’anni: di solito si mette al centro delle accuse la socialdemocrazia, ma il discorso sarebbe più ampio. Non si è riusciti a costruire una sintesi tra l’inserimento cordiale nella stagione della globalizzazione finanziaria, dei suoi equilibri presunti intoccabili, delle sue compatibilità internazionali, e le condizioni di vita di una società frammentata, individualista, delusa e diseguale, in cui una gran parte del ceto medio si è impoverito o teme di impoverirsi, mentre l’ipotesi di un facile galleggiamento non riguarda più la gran parte del ceto povero. La sintesi è quella di una società dove i figli per la prima volta dopo duecento anni di modernità non riescono a immaginare un futuro migliore dei propri genitori. Non si è riusciti a riesprimere un’idea di eguaglianza che si traducesse in comportamenti concreti, in scelte coerenti, in governo delle cose. In termini di immagine politica, ci si è progressivamente identificati con la «casta», lasciando dietro alle spalle le forme partito radicate nella società (che certo mostravano la corda), sostituite con la retorica alla fin fine tecnocratica della democrazia governante e del «partito leggero» (cioè leaderistico) che si è arroccato in sé stesso, perdendo via via interlocuzioni sociali forti. La crisi del 2008 ha chiuso il cerchio di difficoltà che esistevano già prima. C’erano delle ragioni per i percorsi svolti: non è mia intenzione dire che tutto il cammino fatto sia da buttar via. Ma l’esito politico complessivo chiede ormai un ripensamento radicale.
Mi pare anche del tutto evidente che non abbia senso rimpiangere i bei tempi passati. Quando c’era la sensazione di una capacità delle culture e delle forme organizzative democratiche di interpretare le comunità reali di paese, di quartiere, di fabbrica. Quando si poteva contare sulla forza dell’espansione demografica e della crescita economica per base un prelievo fiscale tale da consentire la costruzione di strumenti pubblici di inclusione negli Stati nazionali. Il tema cruciale è che è sparito quel contesto in cui il compromesso tra capitalismo e democrazia era stato reso possibile, grazie soprattutto al fordismo, cioè a quel dato materiale duro che portava strutturalmente a rendere facile il compromesso tra le ragioni dell’allargamento del mercato e gli interessi del lavoro. Oggi il quadro è infinitamente più complesso. Rispetto al nuovo orizzonte della globalizzazione (con i suoi meriti e i suoi rischi), nessuno ha la bacchetta magica, è bene dircelo. La cultura è drammaticamente silente: ci sono vivaci intellettuali che hanno messo in luce tutti i lati critici della situazione. Infinitamente di meno sono le voci che ci abbiano aiutato a dipanare qualche idea sul verso dove muoversi.
Però qualche spunto di riflessione almeno sul piano del metodo si può provare ad avanzarlo.
Ciascuno deve fare il suo. Chi sta nelle istituzioni e nei partiti ha i suoi compiti. C’è una questione aperta su cosa fare del Pd: è un partito ancora potabile, contendibile, in cui ci sia spazio per una battaglia orizzontale? A me sembra difficile sostenerlo, ma si può discutere. C’è la questione delle amministrazioni. C’è la questione del governo del paese: dove occorre ragionare delle opzioni possibili per il Pd. A mio parere la linea dell’Aventino è del tutto assurda: occorre sfidare il M5S a uscire dalle sue ambiguità. Ma vorrei ricordare che il problema non può essere ridotto a queste dimensioni istituzionali: senza abbandonare la contingenza, occorrerebbe aprire cantieri molto più ampi, soprattutto da parte di realtà che non hanno responsabilità istituzionali dirette.
Ci vuole il senso acuto della discontinuità. Non solo perché ormai a ogni elezione occorre presentare un modello nuovo per vincere (il mito di Macron furoreggia). Ma proprio perché non c’è molto da difendere nella storia che abbiamo alle spalle. Si è esaurito un modello mentale e umano, non solo un programma e un set di regole politiche. Occorre cercarne uno radicalmente nuovo, che parta dalla constatazione che il problema di governare la globalizzazione è lì, inevaso. E che quindi occorre mettere in fila in modo del tutto originale e creativo tutte le risorse che abbiamo (una nuova statualità? Per fare che cosa di preciso? Una visione diversa di Europa? Un intreccio originale tra iniziative sociali e aiuto delle istituzioni?).
Bisogna ragionare in prima battuta come minoranze imprenditoriali e creative. Non serve a nessuno censurarsi subito per senso di responsabilità, scegliere le posizioni più morbide per costruire presunti consensi al centro (non ci sono società tradizionali con un grande elettorato moderato; c’è una tendenza alla radicalizzazione scomposta che attraversa tutti i ceti sociali). Non è opportuno partire dalla mediazione, anzi. Identificarci con un gruppo coeso che presenta alcune idee simboliche forti e ragiona di svolte possibili è ormai del tutto necessario ai miei occhi. Ricostruire insomma identità politiche marcate non è un male, è una necessità. Poi, certamente nel paese ci sono energie e sensibilità che si possono mettere assieme (Walter Tocci ha parlato in un bell’intervento post-elettorale del “grande partito democratico” disperso, ben più ampio del piccolo risultato elettorale dell’attuale Pd). Ma occorre individuare un traino forte per rimetterle insieme.
Occorre ascoltare e orientare, offrendo praticamente e simbolicamente protezione. Non si può più spiegare che tutto va bene, basta essere competitivi e meritocratici. Si deve fare un bagno di umiltà con una vera ri-immersione nelle condizioni di vita delle persone normali, non dico delle periferie degradate, ma basterebbe delle zone semi-centrali delle nostre metropoli. Ammettere i limiti della nostra azione passata, dire apertamente che si vorrebbe fare meglio e di più, scontare i nostri errori ammettendolo francamente in pubblico, condividere le percezioni di quello che nel paese non funziona. Comprendere in questo orizzonte un’antropologia nuova, anche, come quella delle generazioni più segnate da forme di comunicazione moderne di tipo digitale. E partendo di lì, costruire ragionamenti pacati che facciano anche buon uso della comunicazione, dicendo con chiarezza che alcune cose non si possono fare (non sto difendendo l’irresponsabilità), ma anche e contemporaneamente che si vuol tentare in tutti i modi di spostare il confine tra il fattibile e l’impossibile. Una sinistra che difende come ineluttabile il quadro attuale non può che essere spazzata via dalla storia.
Si dovrebbe scegliere un tema-perno su cui lavorare. Se ce n’è uno, a mio parere è la solidarietà tra persone, tra generazioni, tra mondi naturali. L’ipotesi della “ecologia integrale” presente nella Laudato si’ è un tema formidabile ed efficace di incontro. Dove finalmente si ragiona sul fatto che nella globalizzazione tutto si tiene. Dove il senso del limite (che incombe sul nostro destino umano) si coniuga con l’ipotesi di poterlo sfidare e rimodulare creativamente attraverso il lavoro, la progettazione, l’incontro, la costituzione di molteplici “noi” collettivi. Naturalmente non bisogna presentare la solidarietà come dovere (o peggio come punizione, tutte cose che oggi non funzionano più), ma come prospettiva di impegno della libertà, su cui creare benessere condiviso. Naturalmente bisogna “politicizzare” questo appello: non deve rimanere un discorso per piccoli gruppi di buona volontà, ma deve essere sviluppato sul piano di orizzonti istituzionali sostenibili e viabili, mostrabili come convenienti e opportuni a chi li guarda dall’esterno. Ma mi pare che quel filone di pensiero resti una delle poche risorse che abbiamo su cui lavorare a fondo. Last but not least, mi pare anche l’unico spunto decente che circola nel mondo ecclesiale e civile per reinventare un discorso che noi abbiamo sempre definito “cattolico-democratico”, che ancora ha del filo da tessere. Se ne saremo capaci.
* Foto tratta da Flikr, immagine originale e licenza
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