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PRIMO PIANO. Il Pd oltre il Pd

PRIMO PIANO. Il Pd oltre il Pd

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 05/10/2019

Guardo con grande rispetto alle vicende interne al Partito Democratico, partito a cui non sono iscritto né sono stato iscritto in passato.

La separazione di Matteo Renzi dal Pd e la formazione del suo nuovo soggetto, Italia Viva, però parlano a tutta l’area di governo (con ripercussioni che inevitabilmente ipotecano - vedremo presto in che modo - il suo futuro) e ancora di più a tutto il campo progressista italiano. Contribuiscono per molti versi a fare chiarezza e a togliere alibi a chi ha nascosto in questi anni dietro il renzismo le proprie titubanze e corresponsabilità.

Ora è il tempo delle scelte. Esistono le condizioni oggettive per una Bad Godesberg - di segno diverso da quella tedesca del 1959 - della sinistra italiana. Un grande processo costituente di riforma di ridiscussione, di ridefinizione del programma e del profilo di una moderna sinistra di governo e del lavoro in questo Paese. Un processo aperto, che rimescoli le carte, non predeterminato dalle correnti, cui tutti possano partecipare, portando il proprio contributo: soggetti, partiti, associazioni, individui, forze intellettuali. Nicola Zingaretti e tutto il Pd hanno oggi una grande responsabilità, definendo date e luoghi dell’avvio di questo processo.

Ma proprio per la grande apertura di credito che riconosciamo al gruppo dirigente Pd, non possiamo che rilevare con preoccupazione le sue prime mosse dopo la fuoriuscita di Renzi: l’iscrizione in pompa magna di Beatrice Lorenzin, le rassicurazioni di Orlando e altri contro Bandiera Rossa, la votazione della sciagurata risoluzione in Parlamento Europeo che equipara comunismo e nazismo, i tentennamenti rispetto all’unica prospettiva che ora occorrerebbe perseguire: la costruzione – insieme – di una forza popolare, democratica, riformatrice.

È evidente che non si volta pagina in un giorno ed è altrettanto evidente che non si può pretendere di costruire in laboratorio l’optimum. Quel che si chiede è cioè di avviare un processo, che per sua natura è aperto e imprevedibile. Occorre però che vi sia la volontà, che in politica è sempre dirimente.

A mio avviso questo processo dovrebbe poggiare su due premesse.

La prima è la consapevolezza che il progetto strategico su cui è nato il Pd – come paradossalmente dice lo stesso Renzi nella sua intervista a Repubblica – è fallito. È fallita alla prova della storia l’idea di un partito all’americana, fondato sul leader e sulla fusione a freddo di due forze politiche del passato, con un approccio ipermaggioritario. È fallito il modello di un partito pigliatutto, senza un ancoraggio sociale, senza un radicamento territoriale. Allo stesso modo, possiamo dire noi, è fallita alla prova dei fatti l’esperienza della sinistra radicale, minoritaria e velleitaria, disinteressata al consenso e al governo, vittima del proprio narcisismo e della propria auto-referenzialità.

La seconda premessa che suggerisco ha a che fare con la cultura politica e, di conseguenza, con i contenuti del nuovo percorso: senza una radicale revisione del profilo programmatico, Renzi o non Renzi, non si va lontano. Va abbandonata quella subalternità culturale profonda alle politiche d’austerità che in questi anni ha guidato l’azione dei governi di centro-sinistra (Jobs Act, Fornero, Buona Scuola ma anche, prima e ben prima, pareggio di bilancio in Costituzione, privatizzazioni, ripetuti tagli all’istruzione e alla sanità pubblica) che è la prima vera causa dello sfondamento del nazional-populismo nella società italiana. Per abbandonarla occorre chiarire quale è la sua genesi, che affonda le radici nell’illusione, coltivata a metà degli anni Novanta nel mito della terza via, di poter cavalcare la tigre del neo-liberismo. Con molta umiltà occorrerebbe fare un tagliando alle ideologia che ha dominato negli ultimi vent’anni, provando a fare i conti con i guasti che essa ha sedimentato nella società italiana.

E provando a delineare – al contrario – un nuovo approccio laburista, mettendolo alla prova della realtà critica del Paese, come emerge dagli indicatori economici: Banca d’Italia certifica la stagnazione (+0,1% di Pil nel secondo secondo trimestre); l’Unione costruttori macchinari utensili prevede un calo degli ordini del 31,4% rispetto allo scorso anno (-43% di ordinativi dal mercato estero, - 29% sul mercato interno); disoccupazione al 9,9%; + 42% di ricorso alla cassa integrazione straordinaria nei primi sei mesi del 2019 (139mila lavoratori a zero ore, soprattutto nell’industria e nell’edilizia); la pressione fiscale che aumenta al 38%; il cuneo fiscale e contributivo al 47,9% (dodici punti sopra la media Ocse). È evidente che soltanto una politica espansiva, redistributiva, una politica di investimenti pubblici e per il lavoro può segnare una svolta positiva per il Paese e, di conseguenza, per le forze che lo sostengono.

In altre parole: è nato il governo giallo-rosso, che ora con i gruppi renziani ha anche un altro colore. Non vorrei tornare a schemi antichi, ma quel trattino è importante. C’è il giallo, c’è Renzi. Deve vivere un rosso forte, semmai con le venature verdi dell’ambiente e dell’ecologismo, riorganizzato, popolare, con le radici solide nella nostra storia e per il presente e il futuro, un grande progetto di trasformazione. Noi ci siamo.    

Simone Oggionni è membro di Articolo 1 - Movimento Democratico Progressista  

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