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Il posto delle donne in una Chiesa fedele al Vangelo

Il posto delle donne in una Chiesa fedele al Vangelo

Tratto da: Adista Documenti n° 43 del 04/12/2021

Quale sarebbe il posto delle donne in una Chiesa cattolica autentica e realmente fedele alle prescrizioni del Vangelo?

Il recente rapporto francese sugli abusi sessuali nella Chiesa ha mostrato i limiti e i pericoli di un'autoreferenzialità maschile clericale. La commissione ha accompagnato le sue conclusioni con 45 raccomandazioni, una delle quali invita a «rafforzare fortemente la presenza dei laici in generale e delle donne in particolare negli ambiti decisionali della Chiesa cattolica».

Questo ci riporta al modello delle primissime comunità cristiane. Se, infatti, ci chiediamo quali posti dovrebbero occupare le donne in una ecclesia fedele alle prescrizioni del Vangelo, non è semplicemente nelle lettere autentiche di san Paolo che dovremmo cercare il riferimento e gli esempi? Paolo aveva integrato pienamente il messaggio di Cristo che non era incentrato su dodici apostoli riuniti simbolicamente intorno a Lui. Gesù delegava a tutti i suoi discepoli, uomini e donne, il compito di trasmettere la sua legge d'amore; a Marta come alla Maddalena, a Pietro o ad altri, senza discriminazioni di genere o di ceto sociale. È così che nelle comunità istituite da Paolo, Giunia esercita la funzione di apostola. Altre donne guidano comunità o insegnano, come Prisca che istruisce Apollo. Lo sottolinea Michel Quesnel in Paul et les femmes (Michel Quesnel, Paul et les femmes : ce qu’il a écrit, ce qu’on lui a fait dire, Paris, Médiaspaul, 2021): lo sguardo di Paolo sugli individui che lo circondano non dipende dal loro sesso; inoltre conferma che «nelle Chiese fondate da Paolo le donne esercitano vere responsabilità» (p. 71).

Il messaggio cristiano di universalizzazione non ha retto alla auctoritas maschile, troppo ansiosa di riprendere il controllo delle istituzioni nascenti. E questo modello di assemblea ecclesiale, in cui non doveva più individuarsi «né giudeo né greco, (…) né schiavo né libero, (…) né uomo né donna» (Gal 3,28), fu sconfitto dal patriarcato che regnava a Gerusalemme come a Roma. Sappiamo quindi che le Chiese nella loro attuale organizzazione non sono conformi a quanto ci trasmette il Vangelo, ma procedono da una struttura gerarchica verticale, spiritualmente e teologicamente contraria alla volontà di fraternità nell'amore per un solo e unico Padre, voluta da Cristo. Il ritorno a una maggiore orizzontalità annullerebbe l'esclusione delle donne dai vari uffici ecclesiali.

D’altronde, basta aprire il Nuovo Testamento per capire che come la Samaritana, le donne possono testimoniare ed essere missionarie. Come Marta, sono capaci di restituire un insegnamento teologico. A questo proposito, il capitolo 11 del Vangelo secondo Giovanni mostra che Marta ha integrato perfettamente il significato della Rivelazione, e il suo dialogo con Gesù che l'incoraggia non suscita alcuna critica, il che raramente avviene nei suoi scambi con altri discepoli. Inoltre, sappiamo da Luca che alcune donne «lo assistevano con i loro beni» (Lc 8,3) e senza dubbio partecipavano al governo della piccola struttura che seguiva Gesù.

Infine, se la Scrittura non ci bastasse per riabilitare le donne e dovessimo affidarci anche all'antropologia, la società civile ci dimostrerebbe quotidianamente la ridicolaggine dello sguardo aristotelico sulla loro presunta inferiorità. Capi di Stato, di grandi aziende o di associazioni; accademiche di alto livello, donne medici o piloti... ovunque le donne hanno dimostrato qualità pari a quelle dei loro colleghi, non appena è stato loro permesso di sostenere i concorsi per gli stessi incarichi. Senza dubbio a volte li abitano in modo diverso, ma in questo caso, a vantaggio di una maggiore ricchezza dell'umanità.

Quindi, quale dei tria munera (insegnare, santificare, governare) conferiti a un prete dall'ordinazione sacerdotale sarebbe inaccessibile alle donne?

Ovunque si rivendica il riconoscimento della molteplicità degli sguardi, di una diversità delle parole per chi vuole seguire Cristo per vie diverse da quelle imposte da un'istituzione che ormai cerca solo di tutelare le proprie certezze. L'intervento della partecipazione mista offrirebbe alla Chiesa nuove armoniche, getterebbe luce su altri orizzonti. Notiamo che questa apertura è conforme alle prescrizioni del Concilio Vaticano II. La sua costituzione Gaudium et spes ha denunciato come dovesse essere superato ed eliminato «ogni genere di discriminazione sia in campo sociale, [...] del sesso [perché] contraria al disegno di Dio» (GS, 29).

Dobbiamo uscire dalla retorica ripetuta a partire da Giovanni Paolo II che, nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem (sulla dignità e la vocazione della donna in occasione dell’anno mariano, 15 agosto 1988), poi nella Lettera alle Donne, riduce la vocazione femminile alla «Chiesa domestica». È importante oggi denunciare quelle che lui chiama virtù superiori come conseguenze di un potere gestito con la sottomissione e l'obbedienza. Dobbiamo infrangere questo ingiusto modello di attribuzione delle funzioni secondo tendenze di "natura", che le scienze umane hanno dimostrato essere erronee. Come denuncia J.-M. Aubert (Jean-Marie Aubert, L’exil féminin. Antiféminisme et christianisme (Recherches morales), Paris, Editions du Cerf, 1988, p. 137), «come Cristo rappresenta solo la parte maschile dell'umanità, così la Vergine Maria rappresenta solo la parte femminile», la quale non è affatto un modello di sudditanza, anzi. È fondamentale affermare con forza che l’uno e l’altra riguardano l'intera umanità.

La partecipazione mista a un gruppo, che sia professionale, familiare o amicale, mostra che la volontà di monopolizzare il potere e lo spazio si autolimita nello scambio, in una migliore conoscenza delle specificità dell'altro e nella pratica regolare della condivisione, quando il rapporto è instaurato nel rispetto e nella collegialità senza discriminazioni. Il confronto tra approcci femminili e maschili permette di affrontare le questioni secondo altre prospettive e arriva a diluire le velleità di potere, ridistribuendo diversamente i ruoli.

Con una riserva, tuttavia, nella Chiesa attuale. Dovremo ancora lottare contro certi “riflessi” di donne che si mettono spontaneamente in una posizione di subordinazione. L'abitudine di affidarsi al maschio Alfa, forse un retrogusto di seduzione, che porta a posizionarsi in modo diverso rispetto alle compagne più "mobilitate", a volte fanno sì che le principali avversarie che le donne desiderose di condividere oneri e responsabilità incontrano siano le donne stesse. Queste sono, il più delle volte, quelle che hanno assistito a lungo i preti. L'arrivo di compagne determinate a rivendicare altre prerogative le sconvolge e, in un certo senso, mette in discussione la loro abnegazione. Questo iato comportamentale mette in evidenza il controllo subìto per secoli. Quello che offrivano come servizio assume improvvisamente l'aspetto di sottomissione e non è mai piacevole scoprirsi vittima. Pensavano di rappresentare "la" donna devota, sublimata da Giovanni Paolo II. Coloro che oggi prendono la parola infrangono questi codici e li destabilizzano. Eppure bisogna agire perché il modello patriarcale, abolito ovunque in Occidente, deve abbandonare la Chiesa. L'istituzione deve a sua volta riformarsi.

Per gli incarichi relativi alla governance, non esiste un dogma contro la presenza delle donne. Papa Francesco lo ha dimostrato nominando alcune di loro in posizioni di responsabilità. Perché non estendere questa iniziativa alle diocesi quando le cariche non rientrano strettamente nella dimensione sacramentale?

Per quanto riguarda l'insegnamento: nelle università cattoliche, le dottoresse in teologia e filosofia insegnano da diversi anni senza che la scienza ne soffra.

Rimane la dimensione sacerdotale che la tradizione riserva ai maschi, basata su argomenti scritturali e teologici molto contestabili. Questo tema, di cui attualmente è vietato parlare, dovrà tornare all'ordine del giorno perché sarà l'unico modo per far uscire l'istituzione cattolica dal suo clericalismo, che la sta portando al naufragio.

Nel frattempo, poiché è stato dimostrato che uomini e donne hanno le stesse capacità di dirigere, trasmettere e insegnare, perché privarsi dei loro talenti coniugati insieme? Dovremmo rimanere in una visione distorta delle Scritture in nome di una consuetudine che aveva escluso le donne? Ricordiamoci che i più grandi teologi contemporanei militano per una tradizione "creativa", per un adeguamento dell'istituzione ai canoni del nostro tempo. Anche questa è inculturazione ed è aprendosi alle conquiste positive della società civile che l'assemblea ecclesiale cesserà di essere un luogo di regressione, scivolando sulla china della propria scomparsa.

Sylvaine Landrivon è docente associata all’Università cattolica di Lione. Nelle sue pubblicazioni esplora il fondamento biblico della differenza e complementarietà fra maschile e femminile. Fa parte delle sette donne del collettivo “Toutes apôtres!” che, il 22 luglio 2020, avevano presentato al nunzio apostolico a Parigi la loro candidatura a un ministero (prete, diacono, vescovo) a cui non potevano avere accesso. Landrivon, candidatasi al ministero episcopale, è stata anche minacciata di morte.

Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell'autore.

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