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Bolsonarismo, sfida culturale per Lula

Bolsonarismo, sfida culturale per Lula

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 3 del 28/01/2023

Quanto è accaduto in Brasile ha dell’inverosimile, non solo per gli atti di violenza in sé, ma per il senso di impunità e di sfida che ha accompagnato questi atti. Quello che tutti gli osservatori percepiscono è che accanto a gruppi prezzolati al servizio della reazione e accanto ai loro mandanti – agrari, industriali, multinazionali straniere – c’è una parte non piccola della popolazione che ha accumulato un odio irrazionale nei confronti di Lula e di ciò che egli rappresenta. Eppure il neoeletto presidente da sempre ha dimostrato un atteggiamento moderato (per alcuni anche troppo) nel perseguire la realizzazione di riforme tendenti anche solo ad attenuare l’abissale divario tra i ricchi e i poveri del Brasile.

Non è semplice spiegare la complessità di un fenomeno che ha del paradossale. E tuttavia le forze progressiste sono obbligate a compiere questo sforzo, pena l’incapacità di affrontare l’avversario sui diversi fronti: quello economico, quello politico, quello culturale, quello religioso.

Prima dell’‘89, quando il mondo era bipolare, l’analisi del conflitto era molto più facile da comprendere di oggi. Allora si scontravano due modi alternativi di vedere il mondo: dall’Occidente veniva affermato che il proprio sistema di vita, basato sulla libertà, faceva barriera al comunismo, origine di tutti i mali; dal blocco sovietico si asseriva al contrario che il sistema comunista, dispensatore di giustizia sociale, contrastava l’imperialismo, causa di ingiustizia e di oppressione di tanti popoli.

La vittoria del primo sistema sul secondo non ha risolto in meglio i problemi che travagliano da sempre l’umanità, a partire da quelli economici; né ha allontanato il pericolo di guerre, che al contrario sono aumentate in ogni angolo del pianeta. Dato che gli squilibri sociali fra ricchi e poveri nell’era della globalizzazione non fanno che crescere, le classi dominanti devono per forza costruire nuove barriere contro il malessere e la rabbia dei ceti subalterni. Ancora oggi il comunismo viene sbandierato come spauracchio da parte dei ceti privilegiati, ma non basta. Per tale ragione le élites al potere cercano costantemente di far passare politiche a sostegno dello stato sociale come velleitarie, se non demagogiche, o addirittura ispirate a un comunismo mascherato.

In questo nuovo contesto sociale, più fluido e sfumato ad un tempo, l’attacco alle politiche riformatrici, in America Latina, non si è più manifestato attraverso colpi di Stato militari attuati con i carri armati nelle piazze e nelle strade, ma con mezzi più subdoli e sofisticati, i cosiddetti golpe bianchi, come è avvenuto pochi anni fa in Brasile con l’estromissione dalla carica di presidente di Dilma Rousseff e la condanna a svariati anni di carcere per Lula, a seguito di accuse a suo carico risultate poi false.

I nuovi strumenti utilizzati dai gruppi di potere sono il monopolio dei media, l’asservimento della magistratura e la diffusione di false accuse a carico dei politici progressisti, ma anche di semplici militanti. Tuttavia anche questa strada risulta non sufficientemente adeguata allo scopo di conquistare il consenso delle masse. Di qui la necessità di intraprendere una battaglia culturale volta a creare un fronte compatto, granitico, che si opponga a qualsiasi progetto progressista, una campagna che riesca a far breccia anche nei ceti popolari.

Le élite al potere negli Stati Uniti si posero questo problema già a partire dagli anni ‘60, facendo bene attenzione a individuare il nemico da combattere. Quando le guerriglie vennero sconfitte furono le Comunità ecclesiali di Base, sempre col beneplacito di Washington, a entrare nel mirino della reazione nei singoli Paesi latinoamericani. Ma non era ormai più sufficiente emarginare i teologi della liberazione (rilevante fu il ruolo dei vertici della Chiesa cattolica); bisognava inculcare nelle masse povere l’idea che il miglioramento delle loro condizioni di vita non dovesse essere affidato alle lotte popolari, ma solo alla fiducia cieca nei nuovi pastori evangelici, sorti come funghi all’interno di numerosi Paesi latinoamericani. Il caso brasiliano è emblematico di questa strategia complessa e articolata delle destre, spesso vincente.

La politica reazionaria di Bolsonaro ha provocato un drastico impoverimento di decine di milioni di brasiliani e la morte di almeno 700.000 persone a causa del Covid, ma questo non è bastato a indebolire la sua popolarità, dato che nelle recenti elezioni ha ottenuto quasi la metà dei consensi. La sua base di appoggio, molto vasta e articolata, è ben esemplificata dalle tre B: Bibla, Boi, Balas. La Bibbia, cioè la religione intesa come sottomissione alla predicazione dei pastori evangelici. Boi, i proprietari di mandrie, cioè la grande proprietà terriera, Balas, le pallottole, cioè le forze militari.

Latifondisti ed esercito hanno da sempre rappresentato lo zoccolo duro del potere in Brasile. E non è un caso che Bolsonaro, lui stesso un militare, abbia sempre pubblicamente esaltato il ventennio della dittatura brasiliana (1964-1985), il cui unico difetto sarebbe stato quello di limitarsi a torturare gli oppositori piuttosto che ucciderli direttamente. In più occasioni ha affermato che i “comunisti” andavano tutti eliminati.

Tuttavia è certo che né l’appoggio del grande capitale, né la forza dell’esercito, per quanto fattori di estrema importanza, avrebbero dato a Bolsonaro quel consenso di massa che sembra mantenere tuttora, nonostante la recente sconfitta elettorale.

Il segreto dei suoi consensi anche presso settori poveri del Paese sta in buona misura nel fatto che attorno a lui si sono coalizzati, oltre che interessi di classe ben evidenti, anche sentimenti irrazionali istillati dalla propaganda delle Chiese evangeliche, supportata peraltro da una destra cattolica che ha goduto fino a ieri dell’appoggio del Vaticano, in nome dei “valori non negoziabili” quali la lotta al divorzio e all’aborto.

Trovo una singolare similitudine tra gli effetti provocati dalla teologia della schiavitù di ieri e quelli della teologia della prosperità di oggi. Grazie alla teologia della schiavitù veniva inculcato nei neri schiavi il senso della loro inferiorità naturale. La loro vita non poteva avere un orizzonte diverso. Quindi era nel loro interesse stare al loro posto accettando l’esistenza che Dio aveva dato loro in sorte. E per contro il loro padroni bianchi avevano introiettato la convinzione della propria “naturale” superiorità, sia sulla gente di colore, sia sui poveri in generale. In tal modo il razzismo tende a saldarsi col disprezzo di classe.

Per gran parte dei ceti privilegiati brasiliani che Lula, un “pezzente nordestino” sia arrivato alla presidenza è un fatto scandaloso, inaccettabile. Di qui non solo il disprezzo, ma anche l’odio nei suoi confronti. Se per secoli i padroni bianchi avevano operato sugli schiavi un vero e proprio lavaggio del cervello, una analoga operazione viene oggi effettuata dalle Chiese evangeliche sui loro seguaci, inducendoli ad accettare il fatto che i ricchi, quindi la classe dominante, sono tali solo grazie alla benevolenza di Dio e che coloro che non accettano questa “verità” sono vittime del demonio (Lula ha fatto un patto con il diavolo, è stato detto).

Data questa situazione e tenendo anche conto che il nuovo presidente non ha dalla sua parte la maggioranza del parlamento, il progetto di attuare una politica di riforme a favore dei ceti popolari andrà incontro a enormi difficoltà. Lula dovrà combattere non solo l’opposizione delle classi privilegiate brasiliane e delle multinazionali straniere colpite dalle proposte di nazionalizzazione del nuovo governo, ma anche quella parte dei ceti popolari che, irrazionalmente, subiscono l’influenza dell’evangelismo.

Le forze della reazione che si sono tristemente messe in luce anche con i recenti atti di vandalismo si sono mostrate sicure di poter operare nella più assoluta impunità grazie anche all’appoggio di settori dell’esercito (pur non sufficientemente ampio).

Sarà un grosso problema per il nuovo presidente doversi attardare a difendersi dalle minacce dei seguaci di Bolsonaro. Le riforme che ha promesso nella campagna elettorale sono urgenti. Non possono aspettare. Ne andrebbe della sua credibilità e del successo della sua politica.

Bruno D’Avanzo è del Centro studi e iniziative America Latina del Circolo Vie Nuove di Firenze

 

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