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Donne latinoamericane: la resistenza alla devastazione

Donne latinoamericane: la resistenza alla devastazione

Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 26/10/2024

America Latina: abbracciata da tre oceani, una massa continentale di circa 21,5 milioni di kmq in cui albergano circa 700 milioni di uomini e donne con una densità demografica assai bassa (32 abitanti per chilometro quadrato). Un mosaico complesso di quadri ambientali e di stratificazioni sociali affiora in questo spazio che si allunga attraverso 80 gradi di paralleli e si allarga lungo altrettanti gradi di meridiani ospitando condizioni climatiche le più varie (Jared Diamond, Armi acciaio malattie, Einaudi, 1998).

Quali le tipologie di gruppi sociali che si distinguono nel continente? Come noto (Darcy Ribeiro, Le Americhe e la civiltà, Einaudi, 1975), forme sociali articolate, in epoche diverse e per periodi più o meno prolungati, hanno creato agglomerazioni popolose in Mesoamerica, nell’area andina e in parte del continente meridionale interno, mentre popoli distribuiti in gruppi minori, non fortemente gerarchizzati e in più diretta dipendenza con i vincoli delle risorse naturali, hanno occupato l’area forestale amazzonica e quella dei grandi fiumi e delle pianure. Un mondo assai mobile e ricco di interscambi materiali e culturali.

Tutto ciò cadde sotto la pressa devastatrice degli invasori europei in una rottura rapida e brutale. Ma il calco delle matrici ancestrali si è trasmesso nei secoli ed è in tale contesto che si colloca anche il sistema relazionale fra donne e ambiente, con una diversificazione territoriale fra regioni in cui i popoli nativi hanno continuato a costituire la maggioranza demografica colonizzata e regioni in cui le comunità segmentate sono state eliminate, allontanate e sostituite da schiavizzati deportati dall’Africa. Esempio di riconoscimento di tale lascito secolare è la forma istituzionale della Bolivia come Stato plurinazionale con la sua simbolica bandiera Whipala. Laddove è avvenuta sostituzione demografica, come in Brasile e in parte delle isole antillane, si è prodotta omogeneità ecologica delle piantagioni e deformazione dei sistemi sociali in primo luogo parentali e familiari. A questo si è sovrapposto il trasferimento dei diversi sistemi istituzionali coloniali, spagnolo e lusitano.

La devastazione del modello patriarcale

Che prima dello sbarco di europei la cura dei contesti ambientali naturali e la costruzione equilibrata di quelli antropizzati fosse in mani femminili lo testimoniano le narrazioni (che noi chiamiamo miti e leggende) trasmesse dalla fabulazione. E a quelle donne mitiche e reali, agronome competenti nel selezionare e conservare le sementi, dobbiamo molto del cibo che mangiamo: patate, pomodori, mais, a tacere di quinoa e amaranto. Il lungo inverno coloniale, anche per i paesaggi, è stato una catastrofe. Nel modello patriarcale delle piantagioni e delle zone minerarie come Potosì le donne erano separate dal contatto con il territorio, mentre l’agricoltura per cibo e materie prime era quasi inesistente determinando una crisi alimentare endemica. Le terre coperte di monocultura di canna da zucchero rapidamente divenivano sterili, come nel Nordeste brasiliano, e le coltivazioni minerarie di Perù e Bolivia visioni lunari improduttive con cumuli di scorie. Un paradigma, quello della monocultura, che si rinnova fino ai giorni presenti. E infatti in America Latina la questione ambientale ancora oggi riguarda innanzitutto i grandi spazi non urbanizzati: foreste, savane, terre alte, aree umide, deserti, ghiacciai.

Donne latinoamericane in difesa dell’ambiente

Vorrei in primo luogo ricordare donne che hanno pagato un alto prezzo per difendere quadri ambientali e loro ospiti. La boliviana Domitilla Barrios de Chungara (1937-2012) è stata una leader dei combattivi sindacati del settore minerario, il secondo responsabile della devastazione socioecologica, oggi di nuovo in grande espansione. Se mi lasciano parlare (Feltrinelli, 1979), curato dalla scrittrice ed educatrice brasiliana Moema Libera Viezzer, ci dà conto di questa lunga e coraggiosa militanza. Il premio ricevuto da quest’ultima è intitolato alla brasiliana Bertha Luz (1894-1976), biologa educatrice femminista e politica (deputata alla Camera nel 1934- 36: quanti Parlamenti in quegli anni ospitavano rappresentanti donne?) e attivista internazionale. La guatemalteca Rigorberta Menchú, premio Nobel 1979 (Giunti, 1983), vigile nel connettere il passato al presente. Assai nota è la religiosa statunitense Dorothy Stang (1931-2005), che dal 1966 nello Stato di Pará organizzava piccoli contadini della foresta tropicale travolti dalla avanzata dell’agribusiness. Neppure la sua nazionalità di origine la protesse da sei colpi di arma da fuoco sparati a viso scoperto. E non si può dimenticare la honduregna Berta Cáceres (1971-2016) per la sua azione contro le dighe idroelettriche sufiume Gualcarque, sacro per il popolo Lenca. Anche la Teologia della Liberazione, che aveva acceso speranze e che è stata silenziata, ha dato il suo contributo con gli studi ecoteologici della agostiniana Ivone Gebara.

Donne ambientaliste nei governi

In secondo luogo vorrei menzionare un altro gruppo di donne ambientaliste che hanno scelto di tradurre il proprio impegno sul campo in partecipazione amministrativa, percorso arduo e dagli esiti incerti. Per i livelli di massima responsabilità cito la equadoriana Yolanda Kakabadse, ministra dell’Ambiente fra 1998 e 2000, la brasiliana Marina Silva, già coltivatrice in piantagioni di caucciù dello Stato di Acre e attuale (come già fra 2003 e 2008) ministra dell’Ambiente. Entrambe sono legate alle grandi organizzazioni ambientaliste internazionali, il cui operare nei Paesi della periferia non sempre coincide con le necessità e i progetti dei cittadini dei luoghi. E il 1°ottobre 2024 ha assunto la presidenza del Messico Claudia Sheinbaum, fisica e ingegnere ambientale con competenze consolidate su questioni climatiche e con alle spalle un partito ideologicamente e organizzativamente forte (Morena), indispensabile per non perdere, quando si governa, il collegamento con e l’appoggio della società. Ho voluto menzionare alcune donne assai note perché è anche attraverso di esse che parte dell’informazione si diffonde oltre i circuiti locali e questo ha una ricaduta interna.

La “Marcia delle Margherite”

Ma il tema donne e ambiente in America Latina passa attraverso aggregati di singole persone anonime e gruppi che, lungo il filo degli anni, giorno dopo giorno, vigilano sugli ecosistemi e costruiscono spazi biodiversi, quindi equilibrati. La mente va subito a unità di conservazione, terre indigene, aree comunitarie nelle altitudini andine o negli spazi mapuche; va a quello che rimane dei quilombos: luoghi tutti in cui la conservazione della ricchezza genomica era ed è intrinseca e rigenerativa. Margarida Alves, una delle prime contadine leader di un sindacato rurale e per questo assassinata nel 1983 in un ignoto municipio dello Stato di Paraiba, ci mostra questo universo in cui migliaia e migliaia di donne sono protagoniste. Dal 2000 ogni quattro anni il 15 e 16 agosto si svolge in tutto il Brasile, convergendo verso la capitale federale, la “Marcia delle Margherite” che, unendo donne delle campagne e delle città, rivendica relazioni sociali degne, sovranità e qualità alimentare, conservazione delle sementi contadine e sottolinea la centralità della politica in tutto questo.

Agribusiness e miniere

Oggi in Latinoamerica l’aggressione ambientale è guidata dall’agribusiness che sostituisce, spesso in modo illegale, distese di flora e fauna naturale con monoculture artificiali agricole, zootecniche o forestali cariche di biocidi chimici magari vietati nei Paesi di produzione, ma non per l’esportazione. Le popolazioni locali, pur non di rado con divisioni al proprio interno, si oppongono a tale avanzata. Un ruolo importante al riguardo lo svolge il brasiliano Movimento dei lavoratori Senza Terra/MST che conta 40 anni di vita, accanto ai 60 della più strettamente sindacale Confederazione dei lavoratori nell’agricoltura/Contag. Il MST, in cui la presenza femminile nella militanza di base e negli organi dirigenti è alta e formalizzata, è collegato alla rete internazionale di Via Campesina, costituita una trentina di anni fa che coordina “lotta e speranza” in molti Paesi (non solo del Sud del mondo) con un programma di lungo periodo per la sovranità alimentare di qualità che impone una ecotutela e ha molte ricadute. Basta scorrere i siti e le pubblicazioni di queste organizzazioni per misurare il peso delle donne.

Altri attori, che in anni recenti si sono moltiplicati e rafforzati, colonizzano il territorio in modo puntiforme con invasi artificiali per energia e irrigazione e coltivazioni minerarie, settori nei quali nuove tecnologie incrementano il gigantismo. I grandi invasi stravolgono flora e fauna a distanze inattese e modificano microclimi locali, mentre la minerazione avvelena spazi vicini e lontani con frequenti rotture di bacini di lagunaggio. A questi due specifici tipi di catastrofi ancora una volta è stata data, da donne e uomini coinvolti, una risposta collettiva attraverso il Movimento dei colpiti da dighe (MAB in Brasile e con altre sigle in diversi Paesi) nato negli anni ‘80 e che periodicamente promuove incontri internazionali: il IV si terrà in parallelo alla Cop30 a Belém nel 2025. Anche qui molte sono le donne che dirigono e coordinano. Non ho parlato di che cosa succede nelle sfigurate città dalle infinite distese di cemento. Ma certamente, il loro destino è collegato e dipendente da quello complessivo dei quadri ambientali del continente. 

Teresa Insenburg è corrispondente da San Paolo in Brasile, dove attualmente si trova, è stata docente di Geografia economico-politica all’Università statale di Milano.

*R. Menchù, foto di Carlos Rodriguez/ANDES tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

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