
2 anni di guerra: in Sudan la più grave crisi umanitaria del Pianeta
Tratto da: Adista Notizie n° 16 del 26/04/2025
42233 ROMA-ADISTA. È iniziato tutto, un paio d’anni fa, con un regolamento di conti all’interno dell’apparato militare, tra due comandanti al vertice del Consiglio Sovrano, istituzione che avrebbe dovuto guidare la transizione democratica dopo 30 anni di Omar al-Bashir, destituito dalle stesse forze armate l’11 aprile 2019. Ma sin da subito è stato chiaro l’intento dei due contendenti di mettersi al comando della fragile transizione per frenare il previsto passaggio di consegne ai civili. La violenza è esplosa, dopo mesi di tensioni e reciproche accuse, il 15 aprile 2023 nella capitale sudanese Khartoum, tra il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan (presidente del Consiglio Sovrano e comandante in capo delle Forze Armate Sudanesi-Saf) e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti (vicepresidente del Consiglio Sovrano e comandante dei paramilitari delle Forze di Sostegno Rapido-Rsf).
Secondo il settimanale comboniano Nigrizia, intervenuto due giorni dopo l’inizio delle ostilità, la già precaria alleanza tra i leader militari, tessuta per rovesciare il padre-padrone del Sudan, si è disciolta «sotto il peso di enormi interessi politici, militari, geostrategici ed economici, ai quali le due parti avrebbero dovuto rinunciare, in base a un percorso che avrebbe dovuto portare alla nascita di un governo interamente guidato da civili. E poi a libere elezioni. E, probabilmente, anche sotto la spinta di interferenze straniere cresciute nei due campi in questi anni: in primis Egitto e Arabia Saudita (dalla parte di al-Burhan), e Russia, Etiopia, Eritrea ed Emirati Arabi con Hemetti».
Lo stato dell’arte
A due anni dall’inizio della guerra, il Paese è spaccato in due: le Saf controllano le regioni settentrionali e orientali e, da qualche settimana, hanno anche riconquistato aree strategiche della capitale Khartoum, ormai una città fantasma; le Rsf invece dilagano nel sud del Paese, seminando morte anche nelle zone orientali, soprattutto in Darfur, regione ricchissima d’oro, dove è alto l’allarme genocidio. Il già caotico scenario militare del Paese intanto si sta progressivamente complicando, a causa della proliferazione di nuove milizie e di gruppi di civili armati, alleati ai due eserciti rivali o che ambiscono a progetti autonomi: spuntano milizie di autodifesa, movimenti etnici, bande islamiste, sostenitori del vecchio regime, ecc. che rendono il quadro sempre più frammentato e fuori controllo.
Intanto, la popolazione civile, intrappolata nel tragico scontro tra fazioni, versa in una situazione disperata: crimini di guerra, abusi e violazioni dei diritti umani non si contano più; dei 51 milioni di abitanti, la metà è ridotta alla fame, totalmente dipendente dagli aiuti umanitari, ormai ridotti al lumicino per la difficoltà di prestare soccorso nel Paese in guerra e per i tagli alla cooperazione internazionale e per il disimpegno dell’amministrazione Usa; si contano circa 30mila morti (cifra tutta da confermare) e 13 milioni di cittadini sudanesi sfollati nel Paese o emigrati oltreconfine, verso Paesi come Sud Sudan, Egitto e Ciad. Il coinvolgimento umanitario e politico degli Stati vicini, alcuni dei quali a loro volta in crisi acuta, spinge il conflitto ben oltre la dimensione interna e rischia di trascinare l’intera regione in una crisi di stabilità internazionale senza precedenti.
Il 13 aprile scorso, a sorpresa, papa Francesco è giunto in piazza San Pietro al termine della messa delle Palme e ha salutato i fedeli. Nell'Angelus, in forma scritta, Francesco ha ricordato «il secondo triste anniversario dell’inizio del conflitto in Sudan, con migliaia di morti e milioni di famiglie costrette ad abbandonare le proprie case». «La sofferenza dei bambini, delle donne e delle persone vulnerabili grida al cielo e ci implora di agire. Rinnovo il mio appello alle parti coinvolte, affinché pongano fine alle violenze e intraprendano percorsi di dialogo, e alla Comunità internazionale, perché non manchino gli aiuti essenziali alle popolazioni».
Il 15 aprile scorso, giorno del triste anniversario, è stata convocata a Londra una conferenza voluta da Regno Unito, Unione Africana (UA), Unione Europea (UE), Francia e Germania. L’evento di un giorno ha raccolto rappresentanti di tutto il mondo (tranne le parti sudanesi coinvolte nel conflitto) per trovare un accordo sui fondi da destinare alla più grave crisi umanitaria del pianeta e per formulare una dichiarazione finale sulla costituzione di un gruppo di mediazione per raggiungere una tregua. Centrato il primo obiettivo, almeno nelle promesse, bucato invece il secondo, a causa delle divergenze tra alcuni Paesi accusati di fiancheggiare l’una o l’altra parte.
È sempre del 15 aprile anche una dichiarazione congiunta siglata dai membri del G7 che chiede a Saf e Rsf un cessate il fuoco «immediato e incondizionato», nonché un impegno «significativo in negoziati seri e costruttivi».
Flebili speranze, dunque, che sembrano però dissolversi di fronte alla ferrea volontà dei due principali rivali a conseguire una vittoria sul campo, sbaragliando la parte avversa. Nello stesso giorno di Londra, tra l’altro, le Rsf di Hemetti hanno annunciato la nascita di un governo alternativo, «vero volto del Sudan» e capace, rispetto al governo ufficiale, di dare voce a tutte le forze vive (militari, sociali, civili…) del Paese.
Voltati dall’altra parte
Nel secondo anniversario del conflitto, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha rilasciato una dichiarazione, diffusa il 12 aprile dall’ufficio dell’Unhcr (Agenzia ONU per i Rifugiati) a Roma. «Due anni di guerra hanno creato quella che è ora la peggiore crisi umanitaria e di persone in fuga al mondo», aggravata in questi tempi bui dalle impunite violazioni del diritto internazionale umanitario e dai continui tagli globali all’assistenza internazionale, in particolare quelli statunitensi voluti dal duo Musk-Trump.
«I sudanesi sono sotto assedio da ogni lato», denuncia Grandi: «Guerra, abusi diffusi, umiliazioni, fame e altre avversità. E devono affrontare l’indifferenza del resto del mondo, che negli ultimi due anni ha dimostrato scarso interesse nel portare la pace in Sudan o portare soccorso ai suoi vicini».
In un recente viaggio in Ciad, Paese confinante che ospita quasi un milione di sfollati sudanesi, Grandi ha raccolto testimonianze «di esperienze che nessuno dovrebbe essere costretto a vivere. Eppure, nonostante il dolore, mi hanno detto che non si sentono più in pericolo». Grandi sottolinea «la forza silenziosa dell’asilo», che offe una speranza a chi fugge da guerre e fame, ma che oggi è seriamente minacciata dalle «gravi carenze di finanziamenti», che «impediranno di alleviare le sofferenze» dei rifugiati. L’accusa, senza appello, è rivolta al mondo ricco, che ha rinunciato a finanziare l’assistenza umanitaria ma anche i programmi di sviluppo per supportare le istituzioni locali nel loro sforzo di costruire pace e stabilità. «Non sono solo i sudanesi a essere diventati invisibili. Il mondo ha in gran parte voltato le spalle ai Paesi e alle comunità che hanno accolto così tanti rifugiati». Nel caso specifico del Sudan, conclude Grandi, «dopo due anni di sofferenze incessanti, il mondo non può più permettersi di ignorare questa emergenza», perché «continuare a chiudere gli occhi avrà conseguenze catastrofiche».
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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