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Caso Orlandi: 42 anni di silenzi e depistaggi. E qualche speranza

Caso Orlandi: 42 anni di silenzi e depistaggi. E qualche speranza

Tratto da: Adista Notizie n° 25 del 28/06/2025

42302 ROMA-ADISTA. Sono passati 42 anni da quando, il 22 giugno del 1983, Emanuela Orlandi, cittadina vaticana di 15 anni, scomparve senza far ritorno a casa; di lei non si è saputo mai più nulla, nonostante le indagini di diversi magistrati, l’impegno di polizia e carabinieri, la volontà dei familiari di tenere aperto il caso. In tempi recenti, tuttavia, qualcosa è tornato a muoversi. Sono ben tre infatti le indagini aperte sulla vicenda: una da parte della magistratura vaticana – e si tratta della prima indagine ufficiale condotta dalle autorità ecclesiastiche, promossa per iniziativa di papa Francesco a 40 anni dalla scomparsa di Emanuela –, una condotta parallelamente dalle autorità italiane (e della quale per ora si è saputo poco o nulla dato lo strettissimo riserbo che la circonda) e, infine, un terzo filone è quello della commissione bicamerale d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, l’altra ragazza inghiottita dal nulla poche settimane prima di Emanuela e la cui vicenda è stata associata a quella della Orlandi in modo strumentale e all’interno di una più ampia attività di depistaggio – come dimostrato dalle inchieste della magistratura – che ha segnato un po’ tutta la storia di questi 42 anni di ricerche andate a vuoto. Certo, l’attività della commissione parlamentare d’inchiesta, per quanto alcune sedute o parti di esse siano state secretate, ha offerto una quantità straordinaria di materiale, di testimonianze di protagonisti, quelli ancora vivi, dell’epoca. Investigatori, amici, insegnanti della scuola di musica, magistrati.

Don Vergari e Renatino

Mancano all’appello, è vero, alcuni esponenti delle alte gerarchie ecclesiastiche. Uno su tutti: l’anziano card. Giovanni Battista Re, attualmente cardinale decano del collegio cardinalizio e uno dei protagonisti dell'ultimo conclave (all'epoca dei fatti lavorava in Segreteria di Stato). Così come si è indugiato troppo prima di ascoltare testimoni comunque importanti, al di là del giudizio che si voglia dare della loro testimonianza, come Sabrina Minardi, ex compagna del boss Renatino De Pedis, scomparsa nel marzo scorso all’età di 65 anni. Detto questo, indubbiamente davanti ai commissari sono sfilati decine di personaggi che hanno avuto un qualche ruolo nella vicenda, fra figure centrali di questa storia, come il magistrato Giancarlo Capaldo, titolare dell’ultima inchiesta sul sequestro Orlandi, e comprimari, si pensi ai tanti amici e alle tante amiche di Emanuela che, in una selva di “non ricordo, è passato troppo tempo”, sono apparsi più preoccupati di farsi dimenticare in fretta che di dare un contributo alla ricostruzione dei fatti.

In tutto questo, va detto, però, che – fra le pieghe delle varie testimonianze – qualche elemento è emerso, magari non nuovo in assoluto ma comunque interessante. Come quello di don Piero Vergari oggi 88enne, all'epoca rettore della basilica di Sant'Apollinare, adiacente alla scuola di musica frequentata da Emanuela Orlandi. Don Vergari, pur non essendo più lucidissimo a causa dell’età, è stato in grado di raccontare dell’amicizia che lo legava a Renatino De Pedis, il celebre boss della malavita romana, il cui nome rientra anche nel nucleo originario della banda della Magliana, che venne sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, con il permesso del card. Ugo Poletti, vicario di papa Giovanni Paolo II. Vergari, a lungo cappellano nelle carceri romane, già una volta indagato e poi prosciolto nel caso Orlandi dal giudice Capaldo, ha voluto essere presente, lo scorso 9 gennaio, all'audizione cui era stato convocato dalla commissione bicamerale di inchiesta. Il suo scopo era innanzitutto quello di difendere la figura di Enrico de Pedis (questo il vero nome del boss), che venne poi ucciso in un regolamento di conti in via del Pellegrino, dietro Campo dei Fiori, nel 1990. «Enrico de Pedis l'ho incontrato perché, frequentando la chiesa di Sant’Apollinare – ha riferito don Vergari – lui veniva qualche volta nella Cappella della Madonna di Sant’Apollinare. Però, ecco Enrico (perché io lo chiamo sempre Enrico) era molto affezionato alla chiesa. Soprattutto, dopo che ci siamo conosciuti meglio, De Pedis è stato vicino a me per tante circostanze e feste che si facevano a Sant'Apollinare. Vi era anche quella familiarità con De Pedis, che spesso veniva a vedere la chiesa. Poi stavamo insieme per qualche bel momento, con la signora Carla, che sposò». Vergari, che si era adoperato per la sepoltura di De Pedis a S. Apollinare, ritenendolo un benefattore poiché aveva elargito "donazioni" tanto alla chiesa quanto alla scuola di musica, ha definito la supertestimone Sabina Minardi «un'imbrogliona», pur affermando di non averla mai conosciuta, così come ha detto di non aver mai visto Emanuela Orlandi. Allo stesso tempo ha però affermato di essere stato lui a presentare De Pedis al card. Poletti. Il porporato, poi, a quanto pare, si interessò all’attività benefica svolta da De Pedis il quale, nel 1984, sarebbe stato arrestato nell'ambito di indagini su vari reati commessi.

Una “nuova” pista sessuale

Da ultimo, il vicepresidente della stessa commissione, l’esponente del Pd Roberto Morassut, ha tirato fuori una nuova teoria, in base al materiale visionato e alle testimonianze ascoltate, che coinvolge anche De Pedis. Secondo Morassut, infatti, una pista che andrebbe indagata è quello del possibile adescamento di Emanuela per farla entrare nel giro delle produzioni cinematografiche pornografiche hard core, che in quel momento avevano un mercato fiorente. Poi il vicepresidente della commissione, che ha parlato dell’ipotesi al programma di Giovanni Floris “dimartedì” il 14 giugno scorso, ha descritto come possibile adescatore per simili attività il famigerato boss. Teoria, più che pista concreta anche questa, che segue il filone del rapimento a scopo sessuale; la prima magistrata che si occupò del caso, Margherita Gerunda, parlò con linguaggio d’alti tempi di “tratta delle bianche”, intendendo con questa espressione il rapimento di giovani ragazze da avviare alla prostituzione magari per una clientela “selezionata”. Sta di fatto, in ogni caso che, secondo quanto riferisce la giornalista Raffaella Notariale, autrice insieme a Sabrina Minardi del volume Segreto criminale, la vera storia della banda della Magliana, «che De Pedis avesse raggiunto un potere tale da escogitare anche ricatti a noti esponenti politici, attirandoli in trappole a sfondo sessuale. Per riuscire in questa operazione Renatino aveva allestito all’Eur un appartamento: dietro una parete di specchi, per filmare gli incontri hard, aveva installato delle telecamere. Tra le possibili vittime c’erano esponenti democristiani, ma anche deputati dell’allora Psi». Dunque c’era materia su cui gli investigatori avrebbero potuto lavorare. Senza contare che, fruitori di un servizio del genere, potevano essere stati politici più o meno potenti come alti prelati (il che spiegherebbe fa le altre cose il ruolo ambiguo avuto dai servizi segreti, che pure seguivano l’attività criminale di Renatino De Pedis, in questa vicenda).

Certo, siamo nel campo delle pure ipotesi, delle parole più che dei fatti, come sempre è avvenuto fino ad ora nella storia di Emanuela Orlandi. Peraltro bisognerebbe capire se l’ipotetica strategia del ricatto comprendesse anche altri aspetti, legati al denaro o ad altro. Certo è che, quando la famiglia della quindicenne non si arrese e fece stampare 3mila manifesti che vennero appesi sui muri di Roma facendo diventare la scomparsa di Emanuela un caso nazionale, iniziò una potente opera di depistaggio con l’introduzione nel dibattito pubblico della pista internazionale da parte dello stesso Vaticano che finì per orientare l’attività della stessa magistratura fino a quando, nel 1997, la giudice Adele Rando, smontò pezzo per pezzo la pista legata allo scambio fra Emanuela e l’attentatore di Giovanni Paolo II, Ali Agca.

Lunghe reticenze vaticane

Resta un caso, in definitiva, la reticenza vaticana su tutta la vicenda, la scarsa collaborazione alle indagini data dalle autorità ecclesiastiche, quando le resistenze curiali non abbiano costituto una vera e propria forma di ostacolo all’attività della magistratura. «Quel 22 giugno di 42 anni fa non avrei mai pensato che sarebbero passati quattro papi e che il caso di mia sorella sarebbe stato oggi ancora aperto. Cosa mi aspetto da papa Prevost? Quello che mi aspettavo dai suoi predecessori e che non hanno fatto. Lui rappresenta Gesù Cristo sulla terra, è il capo della cristianità mondiale. Gli insegnamenti di Gesù si basano su due parole: verità e giustizia, due insegnamenti che i predecessori di Leone XIV non hanno mai seguito. Mi aspetto da lui che abbia più coraggio e che il suo pontificato si basi su questi due insegnamenti». In questi termini si è espresso Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, nel podcast “Un Altro Pianeta” condotto da Hoara Borselli nella puntata pubblicata lo scorso lunedì 19 maggio su YouTube e Spotify. Alla domanda su quale dei predecessori di papa Prevost si sia impegnato maggiormente per arrivare alla verità e alla giustizia sul caso di Emanuela, Pietro Orlandi ha risposto: «All’inizio ovviamente Wojtyla. Quando venne a casa nostra, pochi mesi dopo la scomparsa, era la persona più potente e influente al mondo. Ci disse che si trattava di un caso di terrorismo internazionale e che si sarebbe impegnato per arrivare a una soluzione. Non lo ha mai fatto. In quel momento ha messo sul piatto della bilancia da un lato la verità sulla scomparsa di Emanuela e dall’altro l’immagine delle istituzioni che lui rappresentava. Ha fatto una scelta: salvare quell’immagine. Da quel momento – ha aggiunto Pietro Orlandi – ha concesso al silenzio e all’omertà di calare su questa storia. Benedetto XVI, invece, se ne è lavato completamente le mani e non ha mai voluto toccare l’argomento. Papa Francesco era inizialmente una speranza. Quindici giorni dopo la sua elezione l’ho incontrato con mia madre per caso nelle strade del Vaticano e ci ha detto che Emanuela era in cielo, un modo delicato di dire che era morta. Significava che sapeva più cose rispetto a noi. In lui avevo creduto ma quando ho fatto richiesta per sapere come stavano le cose il muro si è alzato più di prima».

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

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