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Se dopo il crimine ci fosse un domani

Se dopo il crimine ci fosse un domani

Cari neo-domiciliati a Gaza,

L’appello ad eleggere il domicilio a Gaza ha avuto un grandissimo riscontro: in poco tempo per mille rivoli si sono aggiunte migliaia di firme, e altrettante ne giungono, tanto da essere difficile darne conto; e in grandissima parte con motivazioni toccanti e dolenti, di tanto maggior valore in quanto più ancora che di protesta e di condanna per la spietata condotta dello Stato di Israele, esprimono una profonda immedesimazione e identificazione con la sofferenza delle vittime, che è la forma più alta dell’amore. E tutti con l’ansia di poter fare qualcosa, dal medico che si dice pronto ad andare a operare all’ospedale Nasser di Kan Younis, alle madri che idealmente stringono tra le braccia i bambini affamati, dilaniati e morenti, a famiglie intere che dicono di voler prendere domicilio a Gaza, chi alla parrocchia, chi alla biblioteca, chi là dove con una scodella vuota in mano si è uccisi; e si leggono frasi struggenti, come: “Il mio cuore è spezzato da tanto dolore e sofferenza. Mi sento inutile e impotente davanti a questo orrore”, o: “Eleggo il mio domicilio a Gaza, in una abitazione e in una via non più esistente perché rasa al suolo dai bombardamenti israeliani. Sotto le macerie batte il mio cuore insieme ai familiari palestinesi sepolti vivi”, o: “La situazione di quei disperati, prigionieri, uccisi ed affamati, mi impedisce di dormire serenamente”, o: “Che l'orrore finisca e grida umane facciano retrocedere le armi”.

Da tutto ciò deriva il compito di capitalizzare un tale potente evento di partecipazione popolare, perché sia chiaro che lo scempio non può continuare; ma anche, in positivo, per farne l’innesco di una lotta politica e l’occasione di una riflessione e proposta per una soluzione della questione palestinese, in alternativa a quella “finale” perseguita dal governo israeliano.

La prima cosa da fare ci sembra quella di contagiare le opinioni pubbliche di altri Paesi perché facciano movimento, “facciano rumore”, mettendo in mora i governi ai fini di una azione internazionale efficace contro il crimine in atto; a Bolzano già lo stanno facendo in direzione del mondo austriaco e tedesco. Il testo in tedesco dell’appello è pubblicato nel sito, mentre alcuni governi battono un colpo.

L’altra scelta decisiva è quella di un confronto con la diaspora ebraica, perché insieme, Ebrei e non Ebrei, chiamiamo in causa lo Stato di Israele affinché non metta a repentaglio tutto l’ebraismo – popolo e tradizioni – e non travolga diritto internazionale, rapporti tra i popoli e pace del mondo. Contro il suo attuale dogmatismo e idolatria di potenza occorre persuadere Israele che la sicurezza di uno Stato non può essere garantita solo dalla forza militare; e che la perdita della solidarietà degli altri popoli, a cui, usurpando la memoria di Mosè, Netanyahu dalla tribuna dell’ONU ha distribuito “benedizione” e “maledizione”, potrebbe nel giro di dieci o vent’anni portare all’estinzione dello Stato. È anacronistico che ora Israele voglia instaurare in quelle terre il suo piccolo Impero, come quello di Babilonia o d’Egitto ventisei secoli fa; ma gli Imperi cadono (sta accadendo anche allo sponsor americano), i popoli resistono e vivono.

Naturalmente occorre mettere in cantiere un’alternativa, mentre il ritornello dei “due popoli in due Stati”, che ora suscita anche la beffarda ironia di Trump verso Macron, è divenuto un’espressione puramente verbale, dopo ottant’anni di sradicamento, di colonizzazione ebraica e di chiavistelli istituzionali per impedirne l’attuazione. E oggi si pone una priorità assoluta: la fine del genocidio e che venga battuta politicamente la volontà israeliana e ormai esplicita da parte dei coloni e dello stesso Netanyahu di colonizzare Gaza e di non permettere una sovranità palestinese “nemmeno su un centimetro dei territori occupati nel 1967”, oltre che dar corso alla giurisdizione penale internazionale. 

La prima cosa da fare, se dopo il crimine ci fosse un domani, sarebbe di abrogare nella Legge fondamentale di Israele del 2018 l’identificazione etnica, e la norma per la quale “Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico”.

Così avviato un processo di riforma dello Stato, lontano dalle aberrazioni dello Stato Leviatano, si potrebbe ricominciare a pensare, in prospettiva, all’integrità della terra di Palestina, “da Gaza all’Oltrefiume” come era il regno di Salomone (1 Re, 5, 4-5), accogliente per entrambi i popoli: “due popoli una terra un convivio”.

L’ovvia obiezione è che due popoli che si sono odiati fino a volere l’uno la cancellazione dell’altro, ciascuno vendicandosi dell’altro per le inumane offese subite, non possono vivere insieme. Ma la vendetta è un atto di volontà, non un dettato di natura: gli Ebrei non si sono vendicati dei Tedeschi, nonostante la Shoà, e i musulmani hanno firmato con papa Francesco il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, e con una famosa lettera ad Al Baghdadi di 126 tra i maggiori sapienti e accademici dell’Islam di tutto il mondo hanno contestato l’hadith secondo il quale Maometto “avanza con la spada”. Deposta la violenza, la strada maestra è quella della riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi, alla quale certamente fa da ostacolo il ricordo delle devastazioni subite (gli Ebrei sono cresciuti sotto il monito: “ricordati che cosa ti ha fatto Amalek”). Ma noi non siamo determinati dal ricordo: l’esercizio consapevole e responsabile della memoria è la scelta tra il possedere la memoria o l’esserne posseduti. Il grado moralmente più alto di questo esercizio della memoria è il perdono del male ricevuto. Per Raimundo Panikkar, l’indiano cristiano che parlava dal crocevia di due culture, quella dell’Oriente e la nostra, il perdono “è quasi il contrario della creazione: se la creazione è creazione di essere, il perdono annichila, elimina, fa venir meno quello che è stato”. Non una rimozione, ma un nuovo inizio. Anche le Chiese, padroneggiando il ricordo, si sono riconciliate tra loro: alla conclusione del Concilio Vaticano II per sanare la ferita delle reciproche scomuniche che le Chiese d’Oriente e d’Occidente, si erano lanciata nel 1054, esse hanno deciso di “togliere dalla memoria e dal mezzo delle due Chiese le scomuniche" e “votarle all'oblio”.

Perciò occorrerebbe rinominare la cosiddetta “questione palestinese”, pietra d’inciampo su cui si gioca non l’esistenza di Israele ma la perduta dignità del suo esistere, e si potrebbe chiamarla “la pace palestinese”, il nuovo “mai più” contro ogni genocidio; una pace che metta insieme Israeliani e Palestinesi, il monte Garizim e Gerusalemme, la vittima spogliata e il Samaritano della parabola, né sacerdote né levita,  che fascia le ferite e rivela che “il prossimo” non è il tuo concittadino o familiare o membro della tua classe, ma semplicemente l’altro, lo straniero, quello “della tua stessa carne”, come lo definisce Isaia (Is. 58,7).

Chiusi negli stretti limiti di due Stati, divisi da innaturali confini, Palestinesi e Israeliani potrebbero non reggere alla prova della loro riconversione, e di nuovo affrontarsi come nemici. Ma il diritto, quello scritto e quello da scrivere, offre le risorse di svariate forme associative tra Stati o comunità diverse, con Diritti, Servizi e Garanzie comuni e reciproche autonomie, politiche, religiose e culturali, Federazioni di Stati, Repubbliche o Regni Uniti che siano. Senza che nessuna comunità sia snaturata nella sua identità: ma saranno loro a dover decidere con quale ordinamento.

Naturalmente si possono non condividere queste ipotesi; allora è necessario cercarne e promuoverne altre, sulla spinta del simbolico insediamento popolare di massa nel domicilio di Gaza, come alternativa al genocidio.

Con i più cordiali saluti,

Raniero La Valle, Tomaso Montanari, p. Franco Moscone arcivescovo di Manfredonia, Elena Basile, Francesco Comina, Ginevra Bompiani, Felice Scalia S.J., Vito Micunco, Rita e Luigi Bertagnolli, Domenico Gallo, Enrico Peyretti, Paolo e Rosemarie Bertagnolli, Christian Troger, Alex Zanotelli.

P.S. Per fermare il genocidio, per rivendicare la “pace palestinese”, per un più ampio coinvolgimento popolare, per discutere queste o altre proposte e alternative, tutti sono invitati a moltiplicare i contatti e a promuovere dibattiti e iniziative.

Nel sito pubblichiamo un documento con un gran numero di motivazioni di quanti hanno eletto il domicilio a Gaza. È solo un campione: ce ne sono molte altre analoghe, nelle mail, nei social: certo che se il funesto Netanyahu e i ministri e i militari di Israele, pur nella loro durezza di cuore, le leggessero, si renderebbero conto del male che stanno facendo a Israele, suscitando una riprovazione e un rammarico gravissimi nei suoi confronti non solo di governi ma di opinioni pubbliche. Dopo aver rifiutato l’accusa di genocidio, essi se ne sono fatti i maggiori veicoli e divulgatori. Pubblichiamo anche un articolo, “Quando è troppo tardi per la compassione”, sull’irrimediabile che si è ormai compiuto.

Tra gli indirizzi della domiciliazione simbolica a Gaza, Mimmo Lucano indica: Hamdy Al-Najjar, Via Jamal Abdel-Naser a Khan Younis (è la casa di Adam Alnajjar il bambino che ha perso i suoi 9 fratelli e il padre nella strage provocata da un missile israeliano).

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