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Piano di pace?

Piano di pace?

ROMA-ADISTA. Negli ultimi giorni è stato proposto un piano di pace statunitense, sostenuto da Donald Trump e dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, con l’obiettivo dichiarato di chiudere il conflitto a Gaza.  Questo piano presenta circa 20 punti, che contemplano il cessate il fuoco immediato, lo scambio di ostaggi, il disarmo di Hamas, un ritiro progressivo delle forze israeliane da Gaza, e la creazione di un governo transitorio internazionale.

Ma molte voci – attive diplomatiche, attivisti, osservatori – sostengono che dietro questi termini ci siano ben altri interessi, più vicini a una strategia di potere, colonizzazione, e, soprattutto, un “affare” che serve alcuni establishment, compresa la famiglia Trump.

Il piano sembra non offrire garanzie concrete per la creazione di uno stato palestinese sovrano e indipendente. Non è prevista una articolazione chiara del diritto di autodeterminazione, né un percorso credibile verso uno Stato palestinese con confini, sicurezza interna, e piena sovranità. Alcuni elementi lasciano intendere che lo status quo israeliano in molte zone occupate sarà mantenuto, con concessioni limitate.

Il piano richiede che Hamas si disarmi completamente, rilasci subito tutti gli ostaggi, ceda potere politico, e accetti una autorità transitoria internazionale. Queste condizioni vengono presentate come precondizioni irrinunciabili. Critici sostengono che, in realtà, siano condizioni che depauperano qualunque capacità di difesa o rappresentanza per i palestinesi, senza offrire in cambio sicurezza politica, diritti politici, o autonomia vera.

Anche se il piano prevede un ritiro graduale di forze israeliane da Gaza, ci sono segnali che Israele intenda mantenere presenze significative, forse permanentemente, per controlli di sicurezza, confini, infrastrutture critiche. Ciò suggerisce che il “ritiro” possa essere solo formale o parziale.

Se si guarda oltre la retorica del piano, alcune caratteristiche suggeriscono che l’interesse non sia solo diplomatico, ma anche economico e geopolitico.

La ricostruzione di Gaza richiederà investimenti massicci. Chi controllerà questi investimenti? In quali condizioni? Spesso quei piani parlano di ricostruzione sotto supervisione internazionale, ma è ragionevole temere che società connesse agli Stati Uniti (o alle reti economiche dei Trump e dei suoi alleati) possano ottenere contratti favorevoli.

Il fatto che il piano sia promosso come “20 punti” con scadenze ristrette, ultimatum, pressioni diplomatiche, suggerisce che sia più importante chi firma il documento che cosa venga effettivamente negoziato.

In generale, queste formule sembrano privilegiare interessi strategici di sicurezza israeliana, e proiezioni di influenza americana, più che la libertà e la sovranità del popolo palestinese.

Non è solo spegnere le ostilità: il piano impone il disarmo totale e la scomparsa dell’organizzazione di Hamas dal potere politico e territoriale. Questo significa che la pace – se mai arriverà – sarà subordinata alla totale resa dell’altra parte, senza che sia chiaro cosa accade dopo: quale governo palestinese sostituirà Hamas, con quale legittimità interna, e sotto quali condizioni?

Trump ha dato a Hamas pochi giorni per accettare il piano, altrimenti “conseguenze” (o “un triste fine”) saranno inevitabili.  Questo tipo di pressione riduce lo spazio per una vera negoziazione, mette in posizione di debolezza la parte palestinese, e rischia di produrre resistenze, rigetto o conflitto prolungato.

Il piano cita la necessità del rilascio degli ostaggi e del cessate il fuoco, ma molte testimonianze denunciano che, nel frattempo, le condizioni di vita per i civili a Gaza sono devastanti: distruzione di infrastrutture, limitazioni all’accesso agli aiuti umanitari, case distrutte, decine di migliaia di morti. Un piano che non riconosce allo stesso modo la sofferenza, il diritto a una vita dignitosa, rischia di apparire come un mero strumento di gestione del conflitto, non di risoluzione.

Alla luce delle critiche, e del fatto che anche il papa ha fatto dichiarazioni relativamente moderate (“proposta realistica”, “elementi interessanti”, speranza che Hamas accetti), credo, che Leone XIV non dovrebbe limitarsi a considerare la pace come cessazione della violenza, rilascio degli ostaggi, ecc., ma dovrebbe insistere che il popolo palestinese ha il diritto di vivere nella sua terra, con uno Stato proprio, indipendente, con confini riconosciuti internazionalmente, diritto alla sicurezza interna ed esterna, libertà politica, etc.

Qualsiasi piano di pace che impone condizioni che svuotano la capacità politica palestinese (disarmo, perdita del potere decisionale, supremazia di autorità esterne) dovrebbe essere respinto o rinegoziato. Il papa – come guida morale e spirituale – potrebbe criticare apertamente quelle parti che chiedono la distruzione di Hamas senza alternative politiche credibili, oppure che richiedono la resa totale come condizione preliminare.

Il diritto a vivere, a muoversi, a curarsi, a nutrirsi, ad avere casa, scuole, ospedali: sono diritti fondamentali, che non possono essere subordinati alle condizioni politiche. Il papa dovrebbe chiedere che qualsiasi piano includa garanzie concrete per la protezione dei civili, sostegno alla ricostruzione, accesso libero e non vincolato degli aiuti umanitari, diritti internazionali e umanitari rispettati.

Non si può costruire la pace senza ascoltare coloro che sono direttamente coinvolti: la leadership palestinese (inclusi quelli che magari il mondo considera “controllati” da Hamas) deve essere parte negoziale significativa, non solo destinataria passiva di condizioni imposte. Un processo esclusivo serve solo ad accentuare le ingiustizie.

La storia di Israele-Palestina è profondamente intrecciata con il colonialismo, l’espansione territoriale, l’occupazione militare, la migrazione forzata, il diritto al ritorno, i diritti delle minoranze. Il Papa dovrebbe richiamare alla responsabilità morale della comunità internazionale, inclusi gli Stati Uniti, affinché cessi il sostegno unilaterale ad azioni che perpetuano occupazione, espulsioni, disuguaglianze.

Il Papa potrebbe promuovere la verità su quello che è avvenuto: chi e quante vittime civili, quali danni alle infrastrutture, quante persone disperse, quante case distrutte, quante risorse finite in lucro privato. Chiedere che la pace non diventi “affare edilizio” o “speculazione” – ma che la ricostruzione di Gaza serva ai suoi abitanti, non agli investitori esterni.

Papa Leone XIV – e non solo lui – dovrebbe chiedersi: a chi serve questa pace? Ci sarà realmente pace in quel territorio o una speculazione che mette le "mani sulla città" continuando a calpestare la dignità di quel popolo?

* Arturo Formola è docente di Sociologia generale presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Interdiocesano, Capua

 

Foto di hosny salah da Pixabay

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