Nicea: la carne di chi
Cari amici,
non è proprio una “news”, ma millesettecento anni fa c’è stato il Concilio di Nicea ed è come se fosse oggi, perché nella storia degli effetti non c’è stato un evento che rimanendo se stesso sia rimasto così gravido di conseguenze fino ad ora. Il Papa è andato addirittura a ricordarlo a Iznik, dove sono le rovine di Nicea.
Da Nicea viene la fede quale è professata ogni giorno dalle Chiese cristiane, anche se non sempre veramente creduta e obbedita. Essa dice che Dio esiste, ha parlato dapprima agli Ebrei rimanendo nascosto e Innominato, e a un certo punto della storia si è fatto presente nella carne degli uomini e delle donne e ha preso un nome nella persona di Gesù di Nazaret, attraverso di lui rimanendo in un rapporto di “scambio” (“admirabile commercium”) con gli uomini tutti e per sempre, sicché Dio si fa uomo e l’umanità si fa “partecipe della natura divina”.
Perciò Gesù è chiamato il Cristo, cioè il Messia, e non si può dire “Gesù e Cristo” come fa l’ultimo libro di Vito Mancuso o ridurlo a figura secolare pur eccelsa, come fa la modernità.
Il Gesù di Nicea racconta una storia talmente “altra”, che la modernità la rifiuta, nelle varie forme che vanno dall’ateismo al non-teismo, al post-teismo, all’ipotesi convenzionalmente esclusa del “come se Dio non ci fosse”, fino alla nuova ortodossia della società secolare. Non si tratta però di scelte alternative prive di effetti, perché l’una o l’altra producono due mondi del tutto diversi. Perciò il Papa è andato a Nicea, perché il suo compito è di dare l’annuncio che proprio questo prendere carne di Dio nell’umano, professata a Nicea, può liberare il mondo dal suo attuale intrico di mali e condurlo a salvezza.
È stato questo il suo primo viaggio, e ha fatto bene, perché senza questo “kerigma”, cioè senza farsi segno o strumento di questo farsi uomo di Dio, la Chiesa stessa non avrebbe senso, e tanto meno il papato. Il rischio, come ha detto papa Leone a Iznik, è che Gesù Cristo sia ridotto «a una sorta di leader carismatico o di superuomo, o a un semplice intermediario tra Dio e gli uomini», come voleva Ario, la tesi che per l’appunto Nicea ha escluso. Al contrario questa professione di fede cristologica è di fondamentale importanza, ha detto il Papa, «in questo tempo di sanguinosi conflitti e violenze in luoghi vicini (a Nicea) e lontani» e nel cammino dei cristiani verso la loro piena comunione.
Ma allora la Chiesa può dare un senso alla sua missione solo incarnandosi nelle realtà umane che incontra.
Il primo viaggio di papa Francesco fu a Lampedusa, dove egli prese la carne dei migranti, dei profughi, sul ciglio di quell’eccidio che non esitò a nominare come tale, per il quale il Mediterraneo era diventato un cimitero a cielo aperto; e su questo impostò tutto il suo pontificato.
Il primo viaggio di papa Leone, a Nicea e da lì in Libano, un Paese aggredito, è stato addirittura sul ciglio di un genocidio. Lo ha accolto il presidente Aoun, con un discorso alto e appassionato, in cui ha detto: «Nella nostra terra oggi, come nella nostra regione, c'è molta oppressione e molte persone oppresse. Le loro ferite attendono la sua mano benedetta»; e che si è concluso con un appello drammatico: «la imploriamo di dire al mondo che non moriremo, né andremo via, né dispereremo, né ci arrenderemo. Resteremo qui, respireremo libertà, inventeremo gioia, amore perfetto»; e nella sua risposta il Papa non ha raccolto questo grido, perché il suo discorso era stato preparato già prima, a Roma, ma in questo come negli interventi successivi ha molto insistito sui tormenti del “Levante” e sulla pace, anzi ha dedicato il suo viaggio agli «operatori di pace», e ha parlato di una situazione in cui «tuona il rumore delle armi e le stesse esigenze della vita quotidiana diventano una sfida», dei bombardamenti, di quanti «speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative», di «un mondo che ha i suoi dolorosi fallimenti», di chi «ha dovuto lasciare tutto per cercare lontano da casa un avvenire possibile», dell’«orrore di ciò che la guerra produce nella vita di tante persone innocenti», di «conflitti assurdi e spietati», di un’«umanità che talvolta guarda al Medio Oriente con un senso di timore e scoraggiamento, di fronte a conflitti così complessi e di lunga data». Ma la legge dell’incarnazione avrebbe voluto che tutto ciò non restasse nell’allusione, che prendesse terra, che si desse un nome alle cose, e non solo si levasse “erga omnes” il giusto lamento sui mali del mondo, così che nessuno si sentisse chiamato in causa, come i discepoli all’ Ultima Cena: «Sono forse io, Signore?». Giustamente il Papa ha ricordato Alan Kurdi, il bambino siriano con la maglietta rossa trovato morto sul ciglio di una spiaggia. Ma sul ciglio del genocidio in corso, la carne dello scambio con Dio è quella dei bambini di Gaza, che sono stati uccisi a migliaia, e non solo per caso, magari perché colti a tirare un sasso «contro un soldato israeliano occupante, dotato di mitragliatore, elmetto e giubbotto antiproiettile, oppure contro un carro armato blindato», come scrive la preziosa rivista l’Altrapagina: «perché allora, non sei più un bambino, ma un soldato. E il motivo di tanta ferocia è molto semplice: in ogni bambino si annida un potenziale terrorista, anzi un sicuro terrorista. Non ci può essere pietà, perché la vita di un soldato israeliano invulnerabile vale molto di più della vita di un bambino completamente nudo e inerme che si ribella tirando pietre contro un “nemico” che ha conosciuto solo come nemico, come colui che gli ha tolto i genitori, i nonni, la famiglia, gli amici, la terra, la casa, le scuole, gli ospedali, il futuro, e in ultimo la stessa vita». Ma il nome dello Stato e dell’esercito di Israele non è mai stato fatto in tutto il viaggio intitolato alla fede di Nicea. Certo, bisogna salvare il dialogo e l’amore con gli Ebrei, ma proprio per questo serve la Parola.
Nel sito pubblichiamo una grave denuncia, avanzata da Marco Mascia, presidente del Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova e di Flavio Lotti, presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace, sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che “Tradisce il popolo palestinese”, e un monito di Anna Foa: “Se ci dimentichiamo di Gaza”.
Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
*Foto ritagliata di Edgar Beltrán, The Pillar , tratta da Commons Wikimedia, immagine originale e licenza
Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.
Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!
