Est Congo senza pace... nonostante la "pace" di Trump. La proposta della società civile
Gli accordi di pace mediati da Donald Trump non sembrano tenere. E nei contesti di guerra, nonostante le sigle “storiche” e le fanfare mediatiche che le accompagnano, le ostilità proseguono. Il caso della trentennale conflittualità nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC), in tal senso, non fa eccezione: il 4 dicembre scorso il presidente USA ha dichiarato di aver posto fine all’ottava guerra nel giro di un anno, dopo aver portato i presidenti Félix Tshisekedi (RDC) e Paul Kagame (Ruanda) a Washington per la ratifica dell’accordo del 27 giugno scorso, quando i ministri degli esteri della RDC e del Ruanda, alla presenza del Segretario di Stato Usa Marco Rubio (v. Adista Notizie n. 27/25), avevano siglato un primo accordo (qui l’integrale, qui la notizia pubblicata su Adista Notizie n. 27/25), costruito intorno alla “Dichiarazione di principi” firmata anch’essa a Washington il 25 aprile intorno ad alcuni punti cruciali (contrasto all’intervento delle milizie irregolari nella Regione, riconoscimento della sovranità e dell’integrità territoriale, ritorno degli sfollati e gestione coordinata e trasparente delle risorse minerarie della regione).
Già a giugno la strada della fragile intesa tra Congo e Ruanda – conclamato Stato sponsor delle milizie ribelli M23 che a inizio anno hanno occupato territori e città cruciali nel Nord e Sud Kivu – sembrava destinata a rimanere solo su carta, mentre sul terreno i combattimenti e gli abusi sono proseguiti, continuando a causare migliaia di vittime e imponenti flussi migratori.
Insieme all’accordo di pace, i leader africani hanno anche siglato un accordo quadro di cooperazione economica, per la gestione condivisa e trasparente delle risorse congolesi, il vero nodo spinoso alla base sia della conflittualità di lungo corso sia dell’interventismo di Trump, che con i due Paesi siglerà specifici accordi bilaterali per investimenti nel settore minerario. È ormai chiaro, infatti, che la mediazione USA vada compresa alla luce della concorrenza globale tra Stati Uniti e Cina nella corsa alle risorse rare e strategiche tanto per l’industria tecnologica quanto per la transizione green.
L’appello della società civile congolese
Alla vigilia dell’accordo di Washington, 67 organizzazioni della società civile congolese hanno chiesto con urgenza l’indizione di un processo di «dialogo nazionale inclusivo che coinvolga tutti gli attori armati e le opposizioni politiche e che tocchi le cause più profonde del conflitto in corso da almeno tre decenni nell’est della Repubblica Democratica del Congo». Ne ha dato notizia il periodico missionario dei comboniani Nigrizia il 4 dicembre scorso, giornata che i media hanno raccontato come “storica” ma che la società civile congolese ha guardato con sospetto e disillusione, visti i precedenti e visti i chiari interessi geopolitici ed economici del presidente Trump.
Secondo Nigrizia, l’accordo di Washington sarà solo «un’altra freccia nel feretro della propaganda del capo di Stato USA, che da mesi si intesta accordi di pace a prescindere da cosa avviene poi sul campo». Nel frattempo, «fra Rd Congo e Rwanda, la pace appare in realtà lontana» e le potenze straniere – soprattutto occidentali e asiatiche, affamate di minerali rari – non sembrano minimamente interessate a una svolta pacifica nella regione.
Da queste considerazioni nasce, spiega Nigrizia, lo sconforto della società civile e la proposta di promuovere un dialogo nazionale inclusivo, sulla scia del modello proposto dalla Chiesa cattolica e protestante congolese all’indomani dell’invasione dell’M23 a Goma. Secondo Stewart Muhindo (attivista dell’organizzazione Lucha e fra i portavoce dell’iniziativa), l’accordo di Washington non porterà «effetti concreti sul campo» e si tradurrà in una ennesima «spartizione del potere tra politici». Inoltre, ha detto ancora, «è chiaro che l’esercito e i suoi alleati faticano a contenere gli assalti dell’M23-Rwanda e a liberare i territori occupati». Escluse la via politica e quella militare, ha poi affermato, «proponiamo un dialogo che possa finalmente cercare di comprendere in profondità le ragioni delle interminabili lotte armate e definire insieme una tabella di marcia nazionale per porvi rimedio». «Proponiamo che la mediazione sia assicurata da un attore neutro e accettato dalle diverse parti interessate, come la Conferenza episcopale e la Chiesa di Cristo in Congo, protestante; che l’attuazione delle risoluzioni del dialogo sia guidata dall’insieme delle forze sociali e politiche nazionali nel quadro di un governo di unità nazionale; e che un monitoraggio dell’attuazione delle risoluzioni dell’accordo sia assicurato da un comitato indipendente, che integri gli attori internazionali che accompagnano i diversi processi di pace».
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