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PREGARE PER IL SUICIDA WELBY IN PRIVATO SI PUÒ

Tratto da: Adista Documenti n° 4 del 13/01/2007

Mi turba la decisione del Vicariato di Roma di negare i funerali religiosi a Welby, se è vero che lui era religioso e li desiderava. La ragione sarebbe la sua ripetuta volontà di morire, con suicidio assistito. Con ciò si suppone che tutti i suicidi, per i quali pure si fanno ormai solitamente i funerali religiosi, agiscano per un impulso immediato, improvviso, non premeditato, non pienamente responsabile. Forse questo non è sempre vero.

Il comunicato dice che la decisione di Welby è contraria alla dottrina cattolica. Si deve negare il suffragio comunitario a chi erra nella dottrina? Si teme che il popolo veda l'avallo di un errore dottrinale nel fatto di pregare comunitariamente per l'errante? È più importante immettere nella preghiera ecclesiale la distinzione degli erranti o la misericordia senza distinzioni?

D'altra parte, si può capire che la chiesa voglia tenere la liturgia fuori dal grande clamore mediatico su questo caso.

Il Vicariato dice anche che si può pregare per lui, ma non liturgicamente. Un suicida non è un persecutore, Welby non è certo come Stalin, però mi ricordo che quando questi morì, il 5 marzo 1953 (avevo quasi 18 anni), chiesi che si pregasse per lui nel gruppo dei giovani di Azione Cattolica, nel paese in cui mi trovavo allora (Marina di Carrara). L'assistente mi rispose che potevo pregare personalmente, ma che la chiesa non prega liturgicamente per i suoi nemici. Non reagii, ma ne rimasi scandalizzato. La vita evangelica consiste nell'amare i nemici, per essere simili a Dio nostro Padre, che manda i suoi beni sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45).

Nella chiesa è avvenuta una riforma silenziosa, ma importante. Un tempo i funerali in chiesa erano normalmente negati ai suicidi. Ora, da qualche decennio, li si concede normalmente. Regola evangelica è la misericordia, non giudicare, ma affidare a Dio ogni defunto.

E semmai, se ci sembra che un fratello ne abbia particolare bisogno, pregare con più intensità per lui, nella fraternità ecclesiale.

Io vedrei bene che, nel funerale civile di Welby, un cristiano esprimesse pubblicamente la preghiera della Chiesa per lui, accompagnato dai credenti all'incontro con Dio.

In tutta questa vicenda è in gioco non solo l'idea della vita dono di Dio (affidato alla nostra responsabilità), ma anche l'idea che abbiamo del dolore. È sempre e comunque da accettare, anche quando non ha alcun frutto di vita, di purificazione, di generosità, di servizio agli altri? Di fatto, noi lo evitiamo in mille casi minori, con mezzi che non consistono nel togliere ostacoli artificiali e non guaritivi alla morte naturale. È proprio un male togliere tali ostacoli e lasciare che la morte naturale tolga il dolore inutile?

Difendere la vita e mai ucciderla è rispetto e gratitudine a Dio per il suo dono impegnativo. Ma quando questa vita si esaurisce, proprio se crediamo che la morte non porta sul nulla ma all'incontro con Dio, evitare la morte non può diventare un'ossessione.

In ogni situazione concreta si tratterà di valutare bene (talvolta è difficile) se la terapia ha qualche prospettiva o se è accanimento inutile e (fisicamente o psicologicamente) doloroso. Nel primo caso, togliere la terapia sarebbe dare la morte, nel secondo caso è rassegnarsi alla morte inevitabile, risparmiando un dolore senza scopo. Oggi la morale, anche religiosa, non condanna chi rifiuta una terapia ardita (per esempio, un intervento chirurgico o un trapianto) accettando la probabilità di morire. Interrompere una incerta terapia in atto, è qualcosa di molto diverso? Bisogna ancora riflettere, senza fretta di concludere e sentenziare.

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