Meglio il carcere che sparare sui palestinesi
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 31/01/2009
“Non possiamo restare in disparte mentre centinaia di civili vengono macellati dall'Idf (l’esercito israeliano). In questo momento la cosa più pericolosa è la falsa speranza che questo tipo di violenza possa portare sicurezza a Israele. Invitiamo dunque i soldati a rifiutarsi di partecipare alla campagna di Gaza”. Con queste parole è tornata a farsi sentire la voce di Courage to refuse, organizzazione nata nel 2002 da un gruppo di militari israeliani che si sono opposti all’invasione del territorio palestinese oltre il confine stabilito nel 1967.
L’8 gennaio scorso, insieme ai movimenti pacifisti riuniti di fronte al ministero della difesa israeliano, l’organizzazione degli obiettori ha manifestato per “contrastare l’atmosfera guerrafondaia che prevale nei media e nel sistema politico israeliani”. In una intervista rilasciata l’11 gennaio a Peace reporter, Arik Diamant, uno dei fondatori di Courage to refuse, ha affermato: “Abbiamo deciso di riprendere le attività per dire ‘smettete!’. Ci siamo resi conto che nel discorso pubblico sugli eventi di Gaza mancava una voce.
Ci sono state diverse proteste contro la guerra, ma la nostra è particolare perché viene dall’interno dell’esercito”. Anche i media nazionali, ha aggiunto Diamant, preferiscono oscurare le voci che si levano contro la guerra e tendono a descriverle addirittura come un tradimento. Invece “il pubblico israeliano – ha chiarito – ha bisogno di ascoltare qualcuno che non sia tout court contrario alla guerra, qualcuno che sia stato un soldato e sappia cosa significa fare il proprio dovere in difesa del paese”. Allora “il nostro ruolo è strategico: consiste nel prendere il discorso dei pacifisti e tradurlo in modo che il grande pubblico lo possa consumare”.
Il rifiuto di imbracciare le armi è una decisione particolarmente rischiosa in Israele e comporta l’arresto immediato e la reclusione. Più semplice sarebbe ottenere l’esonero dalla leva militare: è sufficiente un certificato medico per motivi di salute o per disagio psicologico. Hanno, invece, scelto la detenzione, già prima dell’attacco a Gaza, cinque obiettrici appena maggiorenni: Mia Tamarin, Tamara Katz, Omer Goldman, Raz Bar David Varon e Sahar Vardi. Ora sono rinchiuse nel carcere militare “400” di Tzrifin.
Esse sono, inoltre, fra le firmatarie della Lettera dei maturandi, una dichiarazione di studenti israeliani che, al temine degli studi, hanno rifiutato di prestare il servizio di leva obbligatorio nei territori occupati. E hanno condannato la politica del governo contro la Palestina.
In una dichiarazione nel giorno dell’arresto, resa nota il 3 dicembre scorso dall’associazione “Donne in nero”, vicina alle obbiettrici israeliane, Raz Bar David Varon ha così motivato le ragioni del suo ‘no’: “Sono stata testimone dell’opera di devastazione, di spari e di umiliazioni inflitta da questo esercito a persone che io non conosco, ma che ho imparato a rispettare per la loro capacità di andare avanti giorno dopo giorno nonostante questi orrori. Non sono venuta al mondo – ha aggiunto – per fare il soldato di un esercito che occupa un’altra terra e la lotta contro questa occupazione è anche la mia lotta. È una lotta per la speranza, per un mondo che a volte sembra così lontano da realizzare. Io ho una responsabilità verso questa società. Quella di rifiutarmi di fare il soldato”.
Secondo l’ex presidente dell’italiana “Lega degli obiettori di coscienza” Giancarla Codrignani è “necessario prendere in considerazione ogni presa di distanza dalle pratiche di violenza connaturate nell’istituzione militare. “L’arresto delle ragazze israeliane di leva, perché non vogliono andare a combattere nei territori occupati, ci invita – ha affermato ancora Giancarlo Codringnani – a fare attenzione per capire se c’è qualcosa di nuovo tra i giovani”.
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