No: fermare la deriva plebiscitaria
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 31/01/2009
Non credo sia un caso che in politica, da 15 anni a questa parte, si parla ormai solo di “alternanza” e non più di “alternativa”. Ci si candida a gestire l’esistente, non a tentare di trasformarlo secondo criteri di maggiore giustizia ed equità. L’obiettivo (già dichiarato nel Piano della P2) è quello di annullare qualsiasi reale conflittualità che non sia la semplice lotta tra gruppi di potere per imporre la propria egemonia, creando contenitori (movimenti, più che partiti), senza alcun reale rapporto con la dimensione della trasformazione dei rapporti socio economici. All’interno di questo quadro è stata fortemente depotenziata, quando non palesemente aggirata o stravolta, la Costituzione repubblicana, che, unica nel panorama dei Paesi occidentali, disegnava una democrazia sociale e progressiva, fondata sul primato del lavoro (e non del mercato), sul principio di uguaglianza, sulla partecipazione e sulla promozione della cittadinanza attiva, del pluralismo.
La campagna martellante a favore della governabilità, e quindi di un passaggio di poteri dal Parlamento al governo (voti di fiducia, decreti legge, deleghe, ordinanze e regolamenti ministeriali che sottraggono materie di competenza del legislatore) ha con il tempo stravolto questo assetto sino a culminare, nel ‘93, nell’abolizione del sistema proporzionale e nel passaggio all’attuale bipolarismo maggioritario che, per loro natura, comprimono il principio della “sovranità popolare” (sancito dalla Costituzione) fino a cancellarlo, coartando progetti ed idee diverse in modo che sbiadiscano all’interno di due soli contenitori, per lasciar spazio al senso comune (opportunamente orientato) e intercettare più voti rispetto allo schieramento avverso.
Il sistema proporzionale permetteva invece che le diverse culture politiche potessero esprimersi, trovando poi in Parlamento un luogo di composizione sul piano dell’alleanza politica, della proposta di governo. Oggi tutto questo non serve più. Siamo alla aberrante semplificazione di uno Stato che viene fatto coincidere con l’esecutivo; e di un esecutivo che non è più composto da un Consiglio dei Ministri di cui il presidente “promuove” e “coordina” l’attività (art. 95 della Costituzione) dei ministri, ma coincide con l’immagine stessa del “capo” che “guida” la “squadra di governo”. Inoltre, il governo non si più forma sulla base delle mediazioni tra le forze parlamentari, ma a priori e comunque a prescindere dalla dialettica parlamentare, in base ad una legge emanata dalla maggioranza berlusconiana nel 2005, ribattezzata “porcellum” (somigliante, in peggio, alla “legge-truffa” del ‘53), che consegna una maggioranza parlamentare “blindata” a qualunque partito o coalizione abbia superato le altre nella competizione elettorale.
Le conseguenze ultime di questa reductio ad unum della politica italiana, della sottrazione pressoché totale del potere reale di incidere e partecipare alla vita politica, restituito ai cittadini italiani solo sotto forma di vuota possibilità di esprimersi su decisioni già prese e su ceti politici già designati (una sorta di grande televoto collettivo) arrivano fino alle primarie. Un istituto mistificatorio, non solo per il meccanismo ultraliderista e personalizzante che ne è alla base, con sottesa l’idea di un taumaturgo, di un “salvatore della patria” da investire, idea cui la sinistra è stata sempre estranea (ricordate? Nei manifesti elettorali del Pci erano bandite le facce dei candidati...) – ma sopratutto perché essa rappresenta il necessario sigillo plebiscitario per personaggi politici di apparato che intendono esercitare il loro potere senza più alcuna forma di controllo. Perché, alla fine, proprio di plebiscito si tratta: nelle primarie la “volontà popolare” è ridotta al sì o al no ad un leader e sostituisce in toto la discussione sulle scelte di fondo. Del resto, poiché l’autocrate è capace di influenzare la pubblica opinione, pone ad essa le domande solo nel momento opportuno affinché, in una democrazia passiva e ampiamente manipolabile, i cittadini-sudditi possano firmare, in favore del leader di turno, più o meno illuminato (e dietro al quale, comunque, tendono a coagularsi precisi interessi), mandati rigorosamente in bianco.
Capisco la tentazione di considerare comunque le primarie uno strumento di democrazia. Ex malo bonum, ritengono molti, anche a sinistra. Per quanto discutibile, le primarie sarebbero una “moderna” forma di partecipazione. E poi con le primarie si recupererebbe il distacco tra élite e popolo. Ma quell’ansia di partecipazione le “primarie” non la esaudiscono; la adulterano, trasformandola in adesione passiva al personalismo di leader autoproclamatisi che governano dall’alto le assemblee elettive. Del resto, l’esperienza statunitense insegna: riesce a candidarsi alla carica di governatore o presidente solo chi ha la possibilità di pagarsi campagne elettorali milionarie, sostenuto dalle potenti lobbies industriali e finanziarie. Il consenso popolare si costruisce – in modo capillare e scientifico – dopo; non è certo un presupposto. Nel giorno della civetta Sciascia faceva cinicamente constatare al capo mafia don Mariano: “Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna...”. “Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo”. Ecco, la sensazione è che con le primarie ci venga solo consentito di scegliere il nome di chi ballerà sulle nostre corna.
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