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Tre sfide per il Pd

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 07/03/2009

Le difficoltà, le sconfitte e gli avvicendamenti al vertice del Partito democratico hanno provocato dapprima una reazione di delusione e quasi di rabbia; e poi un sincero dispiacere. Adesso è il momento della riflessione; anche se in politica, si sa, ci sono sempre delle urgenze che premono e non è facile ragionare con calma. Perciò può essere utile che pure non appartenenti al Pd, simpatizzanti o distaccati, esprimano la loro opinione, i timori, gli auspici e anche le critiche. Così facciamo su questo numero, proponendo voci diverse; e così faremo in futuro auspicando che collaboratori e lettori vogliano esprimere il loro punto di vista, possibilmente in modo sintetico e chiaro. L’antica e longeva tradizione democristiana ricordava, in questi casi, che dopo la Quaresima viene la Resurrezione (passando attraverso il Venerdì santo).

L’importante è di individuare il cuore del problema, evitando di ridurre la politica ai personalismi, al gossip, alle polemiche strumentali e agli interessi individuali e di gruppo. I cittadini infatti, sono stanchi di queste cose; magari le leggono e ne parlano, ma per dire che tutto questo non gli piace, che non vogliono più saperne.

Ecco: il Pd, come tutti i partiti democratici e di sinistra, si rivolge a cittadini che non hanno come primo obiettivo né la difesa degli interessi né di essere cooptati nel mondo dei consumi, del “benessere” e degli egoismi della destra. La “forma partito” fondata sulla delega a gestire gli interessi e le paure, e accompagnata dall’adesione entusiastica alle parole, alle barzellette e al modello del Capo può andare bene, ieri e oggi, al diffuso qualunquismo di destra; ma non va bene al popolo di sinistra; e neppure di centrosinistra.

Il Pd ha dunque bisogno di proporsi come un partito dove i cittadini possano partecipare democraticamente a costruire una politica pensata e fatta per servire il Paese “a cominciare dagli ultimi”. I cittadini devono essere ascoltati e messi in condizione di partecipare effettivamente, in tutti i modi possibili: nelle sezioni e nei circoli, nei dibattiti interni ed esterni, nella scelta dei programmi, dei responsabili e dei candidati. Ricordo quel che diceva Nando Fabro, grande e modesto intellettuale cattolico genovese, per decenni direttore de Il Gallo, nella stagione del Ppi di Martinazzoli: vorrei che nascesse un partito anche piccolo, un guscio di noce, che sia però capace di educare i suoi aderenti, e così migliorare l’Italia. La vita di partito (che non significa passare tutto il tempo in sezione…) deve migliorare le persone che ne fanno parte. È una formula semplice, ma dice in sostanza che bisogna fare il contrario di oggi. Significa che occorre un partito di vera partecipazione, di relazionalità quotidiana e amichevole; capace di creare e diffondere cultura, di costruire e custodire un progetto politico ideale (la tesi); e disposto ad allearsi, sulla base di un programma possibile (l’ipotesi) con tutte le forze necessarie e compatibili.

Interpretare il bipolarismo come la contrapposizione di due mega-partiti rischia, nel nostro contesto, di ridurre la democrazia alla conta dei voti (senza neppure le preferenze!) con la delega a un leader per comandare il Paese come un capo-azienda.

Ad essere in gioco è proprio l’idea di politica: se essa è soltanto gestione del potere  da parte di un amministratore delegato; oppure se è la individuazione e gestione del bene comune realizzata con la responsabilità e la partecipazione di tutti; e poi riassunta e coordinata, ai vari livelli, da coloro che vengono espressi, con mandato non irrevocabile e continuamente verificato dalla maggioranza (reale e più ampia possibile) dei cittadini.

Il futuro del Pd e, in larga misura, della qualità della convivenza civile in Italia dipenderà in larga misura da tre cose: la qualità della politica che saprà immaginare e proporre; la qualità della partecipazione democratica che vorrà creare al suo interno; la qualità anzitutto morale e culturale della classe dirigente. (ab)

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