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Ddl intercettazioni Quando la legge oscura la verità

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 53 del 26/06/2010

La legge sulle intercettazioni, approvata dal Senato il 10 giugno, non è una delle tante riforme del codice di procedura penale che si sono avvicendate negli ultimi tempi con un ritmo forsennato. È una riforma di sistema che, attraverso la compressione della giurisdizione, incide sulla qualità della democrazia, sfigurandola.

La democrazia è un organismo che gode di una salute fragile. È insidiata da molte patologie, sempre in agguato. Gli anticorpi per contrastare le patologie che aggrediscono la vita di una comunità organizzata in Stato si trovano all’interno dei meccanismi di controllo, sia politici che istituzionali, che compongono la trama dell’assetto democratico dell’ordinamento. Il principale meccanismo politico è rappresentato dal controllo esercitato dall’opinione pubblica. Il principale meccanismo istituzionale è rappresentato dal controllo di legalità esercitato dall’autorità giudiziaria.

Entrambi si agevolano e si rafforzano a vicenda. L’attività giudiziaria, se non fosse sottoposta alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica, potrebbe degenerare, perdendo efficienza ed imparzialità. Ugualmente l’opinione pubblica, se non venisse alimentata dalla conoscenza dei fatti che solo l’autorità giudiziaria può fare emergere, non potrebbe svolgere nessuna funzione di controllo.

Ebbene la riforma varata dal Senato aggredisce entrambi questi meccanismi sociali che nell’ordinamento sono deputati a tutelare la salute della democrazia.

 

Il controllo dell’opinione pubblica

Per quanto riguarda il controllo dell’opinione pubblica, il ddl Alfano mette il bavaglio ai giornali vietando, fino alla conclusione dell’istruttoria, non solo di pubblicare le intercettazioni che non siano più coperte dal segreto istruttorio, ma persino di darne notizia per estratto o per riassunto, e rafforza questo divieto minacciando il carcere ai giornalisti e sanzioni pecuniarie durissime alle imprese editoriali.

In questo modo viene oscurato il controllo dell’opinione pubblica, alle quale viene impedito per anni di conoscere fatti di pubblico interesse.

È evidente che  per tale via si realizza una illecita compressione delle libertà costituzionali garantite dall’art. 21 della Costituzione e dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa materia, con particolare riferimento alla pubblicazione di intercettazioni telefoniche, deve essere ricordata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 7 giugno 2007 sul caso Dupuis ed altri contro Francia. Con tale pronuncia la Corte ha affrontato il caso di due giornalisti francesi e della loro casa editrice ai quali erano state inflitte sanzioni pecuniarie, in quanto riconosciuti colpevoli del reato di concorso in violazione del segreto istruttorio con riferimento ad una vicenda avente ad oggetto un sistema di intercettazioni illegali, disposte dal presidente Mitterand, che aveva destato vasta eco nell’opinione pubblica francese.

La Corte, condannando la Francia, ha ricordato che l’art. 10, comma 2, della Convenzione non lascia spazio a restrizioni della libertà d’espressione nell’ambito del dibattito politico o delle questioni di interesse generale, osservando che i giornalisti che mettono il pubblico a conoscenza di tali fatti esercitano la loro funzione di “cani da guardia” della democrazia.

Quello che è certo è che, in Italia, dopo l’entrata in vigore del ddl Alfano, ai “cani da guardia” della democrazia sarà messo il bavaglio e non sarà possibile, non solo abbaiare, ma neanche emettere un guaito. I media, in pratica, non potranno più dar conto delle inchieste penali in corso, qualora le stesse siano fondate su risultati emersi da eventuali operazioni di intercettazione di comunicazioni, se non – eventualmente – con anni di ritardo.

 

Il controllo di legalità

Per quanto riguarda il controllo di legalità, bisogna considerare che l’esercizio della giurisdizione penale ha la funzione di incidere, con il bisturi, sulle patologie sociali più gravi che affliggono la convivenza civile e che aggrediscono la vita, la libertà ed i beni dei cittadini.

L’attività di indagine che compie la polizia, sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, mutatis mutandis, è simile alle indagini diagnostiche che vengono fatte negli ospedali per conoscere lo stato delle patologie che pregiudicano la salute del paziente. È evidente che un surplus di tac o di risonanze magnetiche, oltre che gravare eccessivamente di costi la sanità, può essere controproducente rispetto alle esigenze di cura. Così è evidente che, nel campo giudiziario, i mezzi di indagine che incidono sulla privacy, conformemente al dettato costituzionale, devono incontrare i limiti fissati dalla legge e dall’intervento di un giudice imparziale.

Ma è possibile concepire un intervento legislativo che invece di agevolare l’efficienza dell’azione di contrasto alla criminalità miri, al contrario, a smantellare la capacità investigativa degli inquirenti, togliendo dalla cassetta degli attrezzi della polizia quegli strumenti di indagine che la tecnologia ha messo a disposizione della ricerca della verità?

Eppure proprio questo è l’obiettivo perseguito dal legislatore berlusconiano, che ha sottoposto l’attività degli investigatori ad una serie di trappole, limitazioni, divieti ed aggravamenti procedurali che non possono avere null’altro effetto se non quello di bloccare od impedire la ricerca della verità per tutti quei reati di cui siano rimasti sconosciuti gli autori.

Si è cominciato a frapporre ostacoli procedurali, sottraendo al giudice delle indagini preliminari il potere di disporre l’autorizzazione per le operazioni di intercettazione e costringendo il Pubblico Ministero ad inviare tutti gli atti di indagine compiuti al tribunale distrettuale (che normalmente coincide col capoluogo di Regione). Poi si è assoggettato al regime proibizionistico delle intercettazioni anche uno strumento di indagine, di enorme utilità investigativa, quale l’acquisizione dei tabulati telefonici che finora la polizia poteva acquisire, senza particolari limitazioni, con un semplice decreto di autorizzazione del Pm (tanto per fare un esempio, basta considerare che i responsabili del sequestro di Abu Omar sono stati individuati incrociando i dati dei tabulati telefonici). Poi sono state praticamente abolite le intercettazioni ambientali (che possono essere disposte soltanto per tre giorni). Poi sono stati introdotti dei limiti di ammissibilità che rendono impossibile avvalersi delle intercettazioni telefoniche (e dei tabulati) nei casi in cui sarebbero quanto più necessarie, vale a dire quando sono ignoti gli autori del reato. Poi si è introdotto il limite massimo di 75 giorni per la durata delle intercettazioni con una coda ridicola di possibili proroghe di 3 giorni. Poi si è stabilito che le intercettazioni disposte per una certa ipotesi di reato non possono essere utilizzate se da esse si ricava la prova della responsabilità dell’imputato per un altro tipo di reato per le quali l’intercettazione non è ammissibile. Infine, per chiudere il cerchio è stato introdotto un limite di bilancio, che stabilisce a sua discrezionalità il ministro della Giustizia. Per cui quando saranno finiti i fondi che il sig. Alfano metterà a disposizione degli inquirenti,  non si farà neanche un’intercettazione e la criminalità potrà tirare un sospiro di sollievo.

Senonché il contrasto alla criminalità non è un bene disponibile da parte delle maggioranze parlamentari. Per quanto l’esercizio della giurisdizione penale abbia un carattere odioso per la sua natura coercitiva, essa è posta a presidio di beni pubblici: la vita, la salute, la libertà, l’erario, che non possono essere dismessi. Non si può lasciare impunito l’omicidio per non violare la privacy  dell’assassino e del suo entourage. La legge dovrebbe agevolare la ricerca della verità. Invece la riforma delle intercettazioni, vietando o ostacolando gravemente l’attività investigativa, persegue tenacemente lo scopo opposto: l’oscuramento della verità.

Fino al punto da oscurare persino il giudice che procede. Attraverso il divieto di pubblicazione del nome e dell’immagine del giudice non si realizza soltanto la vendetta postuma contro Falcone e Borsellino, si modifica la natura dell’attività di iuris-dicere, applicando una maschera per rendere invisibile il volto del giudice, come accadeva nei processi dell’Inquisizione. In questo modo si intacca anche il bene pubblico della trasparenza nell’esercizio delle funzioni pubbliche.

Attraverso questa riforma, ridimensionando il controllo di legalità, tutti i beni pubblici repubblicani vengono compressi, limitati, depotenziati, se non addirittura  apertamente rinnegati. Se la democrazia si nutre di verità e di trasparenza, qui si stanno gettando le basi per un nuovo ordinamento che bandisce la verità e la trasparenza. Se la verità rende liberi, dove ci porta un sistema orientato all’oscuramento della verità?

*Magistrato, consigliere Corte di Cassazione

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