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Politica e partecipazione. Cattolici nel Pd: un problema che non esiste

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 22/01/2011

Dopo gli articoli di G. Scirè e G. Russo Spena (v. Adista nn. 96 e 100/10), prosegue il percorso di approfondimento su “Politica e partecipazione”, con una riflessione di Franco Monaco sui cattolici nel Pd. I lettori possono partecipare al dibattito inviando i loro interventi a luca@adista.it.

In prima approssimazione, la questione può essere tematizzata a partire da due interrogativi speculari: il Pd è un problema per i cattolici che vi militano? I cattolici che vi militano sono un problema per il Pd? O invece gli uni (i cattolici) e l’altro (il Pd) rappresentano, reciprocamente, un’opportunità e una risorsa?
Sul primo fronte, direi così: il Pd non manca di problemi, anzi, enumerarli e rappresentarli è uno sport praticato largamente, quasi con voluttà. Ma i problemi che affliggono il Pd (problemi di identità, di progetto, di programma, di alleanze) sono tali per i laici e per i cattolici indifferentemente. In tutta franchezza e contro un’opinione corrente, circa il Pd, non rilevo problemi suscettibili di essere avvertiti come tali specificamente dai cattolici in quanto cattolici. Mi spiego: il Pd è partito laico cui si possono imputare molti limiti, ma non mi pare gli si possa rimproverare una base ideologica laicista e tantomeno venata da un pregiudizio anticattolico. La defezione dei teodem risponde semmai a un chiarimento utile e necessario. Erano essi, con il loro approccio fondamentalista refrattario a ogni mediazione politica, ad essere fuori posto nel Pd. Del resto, al Pd erano approdati attraverso la Margherita, portatici da Rutelli per compiacere le gerarchie ecclesiastiche e per bilanciare il peso predominante degli ex Popolari dentro la Margherita. Spiazzandoli e mettendoli in difficoltà sul piano dei rapporti con la Chiesa istituzione. Così pure la defezione dal Pd di qualche centrista verso Udc e Api (anche a voler sottacere calcoli personali non sempre nobilissimi) è riconducibile a una ragione tutta politica: un ripensamento critico verso il bipolarismo italiano e la revoca della scelta di campo di centrosinistra. Non la reazione a una presunta curvatura laicista del Pd. Se un problema c’è, come oggettivamente c’è, dentro il Pd esso è piuttosto quello dell’egemonia (pratica, non culturale) degli ex Pci-Pds-Ds sulle componenti altre dentro il partito. Ma è problema politico e di potere, di continuità-familiarità-affinità stratificate nel tempo del gruppo dirigente di quella filiera. Ma, insisto, non è  problema ideologico e tantomeno esso ha a che fare con la religione.
So bene che, di regola, le cose sono rappresentate diversamente, so che, complice la superficialità e la pigrizia intellettuale dei media, si è accreditata l’opinione secondo la quale i “cattolici” sarebbero a disagio nel Pd. Opinione, a mio avviso, due volte infondata. Primo: perché non si tratta dei cattolici, ma semmai degli ex Dc-Ppi, anzi, più esattamente, di una sola parte di essi. Quelli che fanno riferimento a Fioroni, che sono altri e distinti da quanti, pur accomunati dalla medesima estrazione partitica, fanno riferimento a Marini, a Franceschini, a Bindi, a Letta. Secondo: perché, ripeto, è problema di potere (di posti, di quote) e comunque non di natura ideale e culturale. Al riguardo, non ho esitazioni a sostenere semmai il contrario, e cioè che il Pd è una risorsa e un’opportunità per i cattolici in senso proprio democratici, è il loro cantiere politico naturale. Sempre che si dia alla locuzione “cattolici democratici” (che sono solo una parte e non il tutto del cattolicesimo politico) il senso suo proprio, quello che storici e politologi riconducono a due precisi elementi: una ben intesa autonomia/laicità della politica e un’apertura sociale, direi così, naturaliter di centrosinistra.
In verità, oltre agli ex Popolari, nel Pd, vi sono anche i Cristiano-sociali. Fondati da Gorrieri e Carniti, parteciparono alla costituzione dei Ds. Essi ebbero una positiva funzione nel traghettare a sinistra una piccola, qualificata pattuglia di militanti dell’associazionismo sociale cristiano nella stagione dell’incipiente bipolarismo. Ora però mi pare che essi abbiano esaurito la propria missione. Basti notare che alcuni tra i loro esponenti più noti sono approdati a posizioni liberali, decisamente distanti dalla sensibilità sociale dell’associazionismo cattolico. Infine, dentro il Pd, a Dio piacendo, vi sono altri cattolici distribuiti tra le più diverse componenti interne al partito. Cattolici che semplicemente e apprezzabilmente non amano rappresentarsi come tali in sede politica, che non intendono avvalersi politicamente di quella appartenenza di natura religiosa.
Dove sta allora il problema tanto agitato? Ad alimentare il suddetto equivoco, e cioè la rappresentazione enfatica di un disagio di natura ideologico-culturale dei cattolici nel Pd, va detto, concorrono gli interessati, inclini a nobilitare i propri distinguo e le proprie rivendicazioni. E qui siamo rinviati al secondo interrogativo, ancora più provocatorio, dal quale abbiamo preso le mosse, quello dei cattolici come eventuale problema per il Pd. Di nuovo dobbiamo confutare l’assunto: non sono i cattolici in quanto cattolici a rappresentare un problema dentro il Pd. La questione è un’altra e va messa a fuoco nei sui termini esatti. È semmai il problema dell’incompiutezza del Pd come partito e come organismo collettivo, la sua configurazione interna quale confederazione di cordate (tribù) personali di capi e capetti. Una patologia figlia anche del patologico continuismo di un gruppo dirigente vecchio e inamovibile. Neppure correnti nel senso tutto sommato positivo di posizioni espressive di sensibilità e culture politiche diverse e trasversali alle vecchie appartenenze. Un signor problema questo, ma che nulla ha a che fare con la questione cattolica in quanto tale. Se finalmente, anche in Italia, riuscissimo a liberarci dei detriti di una storia politica e religiosa che ha contribuito a confondere i due distinti piani, con uno slittamento della nozione di “cattolico” dal religioso al politico, potremmo meglio intendere che i cattolici in politica sono un lievito e un fermento che naturalmente e utilmente si distribuisce in varie direzioni. Un fermento, non un partito, una corrente, una lobby. Così dovrebbero essere fuori e dentro il Pd. E va salutato come normale e positivo che gli stessi cattolici democratici (quelli veri) dentro il partito si uniscano e si dividano su base genuinamente politica, per esempio in rapporto alle discriminanti congressuali. Chi nella maggioranza, chi nella minoranza e, in esse, con articolazioni e sfumature diverse. In nome dell’autonomia della politica. Un portato prezioso del vero cristianesimo, quello delle origini, una conquista del cattolicesimo democratico, un guadagno per la Chiesa, la cui missione universale trae vantaggio dalla cura di distinguersi da tutte le parti politiche. Un beneficio anche per la cultura politica plurale del Pd. Del resto, anche le culture (politiche) cristiane si declinano al plurale. Chi, nel Pd, si impanca a supercattolico al fine di ricavarne una rendita politica non solo strumentalizza la religione ma rappresenta altresì un “fico sterile”. Surroga con l’evocazione impropria dell’appartenenza cattolica un vuoto di creativa elaborazione politica. Mentre è lì, sul terreno proprio della proposta politica, che ci si deve guadagnare sul campo la propria ragione sociale e il proprio protagonismo.
In estrema sintesi e a dispetto di una pubblicistica superficiale, sarei per concludere che quello dei cattolici nel Pd è problema che, come tale, non esiste. Problemi nel Pd ve ne sono eccome, ma sono altri ed è bene focalizzarli come altri.

* Già parlamentare Pd, ex presidente dell’Azione Cattolica Ambrosiana e dell’associazione Città dell’Uomo

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