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Lettere

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 58 del 23/07/2011

Appello Contro i lager italiani di Giovanni Miccoli (Professore emerito di Storia della Chiesa, univ. di Trieste)
Notizie di stampa informano che la permanenza dei cosiddetti “clandestini” nei Centri di identificazione e di espulsione (Cie), già portata da 2 a 6 mesi, è stata ulteriormente protratta a 18 mesi (un anno e mezzo!).
Le giustificazioni addotte appaiono del  tutto risibili: non si vede infatti come procedimenti di identificazione che non si riescono a fare con una certa rapidità diventino possibili in un lasso di tempo incredibilmente lungo. Ma non è questo il punto principale. La misura assunta si presenta infatti con un carattere pesantemente punitivo: la clamorosa conferma della volontà di rendere la vita degli immigrati nel nostro Paese, soprattutto se provenienti dall’Africa, la peggiore possibile. Le caratteristiche dei centri e le durissime condizioni di vita cui coloro che vi sono detenuti sono costretti li configurano ormai come veri e propri campi di concentramento. Non è un caso che i controlli esterni vi siano normalmente impediti. Il nostro Paese ha così la straordinaria prerogativa di introdurre nuovamente in Europa una realtà che si poteva sperare cancellata per sempre dopo le truci esperienze del secolo scorso.
Mancano le parole per esprimere l’indignazione e il disgusto che una situazione del genere provoca. Si cerca di ritrovare il consenso sociale che vacilla facendo dei più deboli e indifesi il capro espiatorio di paure e insicurezze che hanno in ben altri fattori le loro ragioni. Le più elementari nozioni di comune umanità e di solidarietà vengono così infrante e calpestate. I più bassi ed egoistici istinti trovano in tal modo incentivo e conferma da chi governa e orienta il costume pubblico.
Abbiamo tuttavia fiducia che una coscienza civile ancora esista nel nostro Paese. Sollecitiamo perciò i nostri concittadini a far sentire la propria voce di protesta per situazioni e metodi che disonorano l’Italia e smentiscono ancora una volta le sue tradizioni di civiltà, troppo spesso vantate solo a parole.

Mani, risparmiaci i tempi supplementari di Dino Biggio (Cagliari)
Sulla vicenda, o sulle vicende, che hanno riguardato la Chiesa cagliaritana e che hanno visto come attore principale il suo capo indiscusso – nel senso che non accetta e non sopporta che venga messa in discussione la sua augusta persona –, l’arcivescovo Giuseppe Mani, avevo deciso di tacere.
Poi nel giorno del suo settantacinquesimo compleanno, il 21 giugno, in cui è giunto a scadenza il suo mandato episcopale, ho ritenuto doveroso intervenire. È arrivato il tempo del suo pensionamento, da vescovo, perché la cospicua pensione per il suo servizio di qualche anno nelle forze armate, come ordinario militare-generale di corpo d’armata, già la percepisce. Ma lui pare non rassegnarsi all’idea del pensionamento episcopale, perché – sostiene – «per i vescovi non c’è la pensione. Una volta vescovo sei sempre vescovo». Che il suo carattere rimanga impresso dal sacramento che ha ricevuto, nessun cristiano può metterlo in discussione. Però anche i vescovi vanno in pensione, a 75 anni, anche se a malincuore, devono attenersi alle direttive del Concilio Vaticano II e rimettere l’ufficio nelle mani del papa. Però, in cuor suo, mons. Mani è fiducioso che il santo padre gli conceda un congruo periodo di permanenza alla guida della più importante diocesi della Sardegna. Spera che gli vengano concessi i “tempi supplementari”, non solo, ma anche i tempi per i “calci di rigore”! Perché, dice: «Una cosa è certa: dopo i 75 anni, ciò che ci viene concesso è sempre un tempo di recupero della partita della vita». Speriamo che il papa ascolti sì il suo bisogno di recuperare il tempo perduto, ma gli dia la possibilità di farlo in altra sede, lontana da Cagliari. Altrimenti, poveri noi! Povera Chiesa di Cagliari! Poveri preti di questa Chiesa ai quali ha fatto versare lacrime amare, rimanendo tuttavia fedeli nonostante le difficoltà e le dolorose situazioni causate da un uomo che, più che vescovo, ha dimostrato di interpretare meglio il ruolo di generale di corpo d’armata.
Non ho difficoltà a confessare, in piena coscienza, che non lo stimo e non lo riconosco come pastore della mia Chiesa, alla quale voglio appartenere con tutte le mie forze. Le poche volte che ho assistito alle sue spettacolari celebrazioni, ho avuto sempre l’impressione, che al suo ingresso, la Shekinah, la Gloria di Dio, abbandonasse il Tempio! Prego per lui il Signore, perché lo aiuti a convertirsi e a liberarsi dall’immagine narcisistica che trasmette e che, a mio avviso, è all’origine di tutti i guasti compiuti durante gli anni del suo governo. Ma lo prego anche che ci “liberi” della sua presenza e che ci dia finalmente un pastore buono, umano, capace di dialogare e di ascoltare la sua gente.
Povero Mani! Non ti sei accorto che il messaggio che hai portato tu, da sempre, è stato espressione solo della tua immagine. Proprio non te ne sei accorto? Se ci riesci, prova a rifletterci seriamente, «prima che arrivi il padrone, molto esigente, che sta per venire a raccogliere anche dove non ha seminato». Forse faresti proprio bene a ritirarti definitivamente nell’eremo che le suore ti hanno messo a disposizione, per dedicarti completamente al silenzio, alla riflessione e alla preghiera. Se tu oggi decidessi di compiere questo passo, noi te ne saremmo molto grati e ti accompagneremmo con la nostra preghiera.

Fede scomoda, religione comoda di Michele Gibiino (aliceadsl647@alice.it)
Sono un vecchio abbonato di Adista. Nel n. 49 della rivista ci sono due lettere, una di Aldo Paliaga (Ancona) e l’altra di Francesco Lena (Cenate Sopra). Al primo vorrei far notare che la sua precisa critica alle religioni in generale, e alla cattolica in particolare, non lascia capire al lettore se lui sia un credente o meno e, se sì, come se lo immagina questo Dio (personale, immanente, provvidente, distaccato…). Per il resto, sono più o meno d’accordo.
Al secondo lettore vorrei dire “gentilmente” una cosa del tutto ovvia, e cioè che quello che lui chiede al papa e alla gerarchia della Chiesa è difficile, per non dire impossibile, che si possa avverare, perché perderebbero una valanga di fedeli che si sono comodamente adagiati nelle pratiche e nei riti di una religione piuttosto “facile” che, tutto sommato, garantisce il Paradiso quasi gratis; e perché poi riceverebbero un coro di reazioni del tipo «da quale pulpito viene la predica». Un caro saluto a tutta la valorosa redazione.

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