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I rischi di una “democrazia affievolita”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 15/12/2012

In tempi di primarie e alla vigilia delle elezioni che dovrebbero esprimere un governo politico dopo l’esperienza dell’esecutivo tecnico, è forse utile fare qualche riflessione sulla democrazia, sui suoi valori e sui modelli di società che essa può esprimere. Se nel nostro Paese le forze politiche in competizione dovessero misurarsi su progetti e programmi sostanzialmente uniformi non ci troveremmo di fronte ad una classe politica matura e responsabile ma a un fenomeno per il quale le identità si sbiadiscono e il confronto dialettico si appanna aprendo la strada che porta ad una società addormentata nelle tensioni, guidata sostanzialmente da una sola cultura politica, controllata da poteri egemoni e pronta ad accettare una “democrazia affievolita”.

Una degenerazione della democrazia per la quale il confronto tra tesi e opzioni diviene un simulacro perché finisce per essere devitalizzato da un’intesa tra forze politiche alternative per culture e progetti, da una sorta di costituzione materiale che determina gli interessi da privilegiare, gli obiettivi da raggiungere e gli strumenti e le modalità di intervento. Una democrazia che si autolimita, si sottopone a un controllo endogeno, si priva della fecondità del conflitto democratico, perde la sua forza propulsiva e condanna se stessa a chiudersi nel recinto degli equilibri pattuiti e degli squilibri accettati. Un rischio che possiamo correre se il confronto tra le forze politiche e tra i loro raggruppamenti non si sviluppa sui temi di primaria importanza che sono oggi la questione morale e la politica economico-sociale. Così come lo sono stati in passato e anche ai primordi della esperienza democratica quando Pericle, col suo Discorso agli ateniesi del 461 a.C., esaltava la democrazia affermando che «un cittadino ateniese non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private» e che il governo di Atene «favorisce i molti invece dei pochi e per questo viene chiamato democrazia».

Per quanto riguarda la questione morale, per affrontarla seriamente non bastano le pur indispensabili operazioni di ricambio, perché malata non è solo la classe politica, ma anche la società che la esprime. Una realtà che fingono di non vedere coloro che sono affetti da cecità etica e quanti non vogliono fare un salutare esame di coscienza. La lotta alla corruzione richiede allora l’adozione di provvedimenti normativi (a partire dal ripristino di un sistema di controlli amministrativi efficace) finalizzati a prevenire e reprimere abusi e corruttele. Le leggi infatti, quando sono tese a promuovere il bene comune, non hanno solo lo scopo di regolare i rapporti e di ripristinare la legalità, ma svolgono una importante funzione evolutiva, quella di contrastare nella società le tendenze negative e di promuovere quelle di segno positivo.

La questione morale va però affrontata anche riproponendo, col concorso dei mezzi di informazione nonché della scuola e di tutte le agenzie formative, i principi e i valori che promanano dalla Costituzione repubblicana. Un impegno da portare avanti tenendo presente che il rapporto tra etica e politica in una società democratica non deve essere di separazione, termine che evoca una reciproca estraneità, ma di distinzione, concetto che richiama una diversità che non esclude reciproche influenze. Non vi è dubbio invero che le moderne democrazie devono essere neutrali rispetto ai modelli di “vita buona” propugnati dalle diverse concezioni religiose e culturali, ma questa neutralità non può comportare l’indifferenza della politica nei confronti di quel nucleo dei valori essenziali che, in un determinato momento storico, sono percepiti come validi dalla coscienza collettiva e che perciò sono posti a fondamento del patto costituzionale.

Per quanto attiene alla politica economico-sociale non convincono i luoghi comuni secondo i quali sarebbe stata superata ogni distinzione tra destra e sinistra anche in considerazione dei vincoli europei che non lascerebbero alle politiche nazionali apprezzabili spazi di scelta. I vincoli europei ci sono, è vero, ma non è detto che essi non possano essere modificati dalla pressione di quei Paesi i cui governi li considerano tali da ostacolare il rilancio delle loro economie. Ma si tratta comunque di vincoli che lasciano tuttora un non trascurabile ambito di autonomia alla politica del nostro Paese dal momento che il risanamento del debito e dei conti pubblici può essere operato attraverso una più equa distribuzione dei sacrifici, una più efficace lotta all’evasione e una riforma fiscale che introduca, come prescrive l’art. 53 della Costituzione, un sistema tributario informato davvero a criteri di progressività.

Non vi è dubbio che in Italia ci siano forze ed esponenti che hanno posizioni diverse e a volte contrapposte in materia di politica economica e sociale: da una parte quelli che accettano il dogma neoliberista con i suoi devastanti corollari sulla flessibilità del lavoro e sull’abbattimento delle tutele sociali; dall’altra coloro che, ispirandosi agli ideali del socialismo democratico e del solidarismo cristiano, ritengono necessaria un’incisiva correzione del sistema per rilanciare la centralità del lavoro, la lotta alle crescenti disuguaglianze e il ruolo dello stato sociale. Due posizioni che hanno vissuto con difficoltà la convivenza nella “strana maggioranza” che sostiene Monti. Un’esperienza che è servita, in un momento drammatico, a mettere la nostra economia al riparo dal rischio del suo fallimento, ma che non dovrebbe trovare nella prossima legislatura diritto di cittadinanza, per scongiurare il pericolo che il nostro Paese venga sospinto nel limbo della “democrazia affievolita”.

* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

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