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Le impronte digitali del governo Letta

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 19 del 25/05/2013

Si dice che moriremo democristiani in un tempo nel quale è già difficile morire cristiani. Anzi, qualcuno paventa che sapremo andare oltre, fino a morire demoberlusconiani, e pare che solo l’anagrafe e la Magistratura potranno evitarcelo.
Eppure, fino a un paio di mesi fa, a ridosso delle elezioni, il menù della politica, sottratto da un governo di presunti tecnici, sembrava offrire scelte alternative, quasi gloriose: c’era chi parlava di governi di cambiamento, di soppressione delle caste, di “tutti a casa”, di riforme epocali, di tsunami incombenti, e via dicendo, con corollari di peana e giuramenti irreversibili. Poi nel segreto delle urne gli italiani hanno mescolato e squilibrato le carte, qualcuno ha barato, altri si sono fidati, alcuni hanno sognato, altri ancora se ne sono stati a casa. E nel giro di poche settimane il Pd, vincitore sconfitto, ha autoaffondato sia Bersani, il segretario eletto con milioni di voti alle primarie, che Prodi, uno dei padri fondatori; ha poi rifiutato Rodotà, tutore doc dei diritti e della Costituzione e riesumato, con una seduta spiritica, Napolitano, che aveva stragiurato che mai e poi mai si sarebbe ricandidato.
È seguita quindi una operazione di restaurazione che ha aperto la strada al governo democristian-berlusconiano dei Letta, Gianni ed Enrico, nella cui compagine gli ex Ds sono stati ammansiti con qualche strapuntino per salvare la razza padrona e qualche briciola di storia.  Così è nato un governo di larghe intese e/o dell’inciucio, che in campagna elettorale era stato escluso con toni tra il solenne e lo scandalizzato, facendo perdere così al Pd anche l’onore. Governo “disservizio” tra le cui braccia il centrosinistra si è precipitato, inducendo il sospetto che l’insano abbraccio con Berlusconi fosse in incubazione da tempo, e che sicuramente ha trovato nella regia di chi ha suonato la carica dei 101 contro la candidatura di Prodi, la molla per venire interamente alla luce: una regia coi baffi e dalle impronte digitali già presenti negli archivi del dissesto pubblico.
Non si tratta di un compromesso storico di berlingueriana memoria, quando il Pci era vivo e vegeto, e di massa, bensì qualcosa di peggio per la sinistra riformista: la sua cancellazione e l’affermazione della cultura democristiana che si confronta con la cultura della destra dentro il governo stesso e afferma, nei fatti, che “morto un Andreotti se ne fa un altro”. E l’accettazione passiva del capo del Pdl, dichiarato nei processi recenti “delinquente per frode fiscale” e interdetto dai pubblici uffici, rende il governo Letta un prigioniero politico di situazioni talmente insostenibili, politicamente ed eticamente (vedi Brescia), da aver trasformato l’inciucio in una inedita, immorale e dolosa complicità.
Il governo “Alfetta” (Alfano-Letta) lascia prefigurare, quindi, non solo l’inequivocabile sconfitta della sinistra, ma soprattutto una sconfitta non tattica, ma strategica, nella società, nella politica e nelle istituzioni. Una domanda è d’obbligo: sic stantibus rebus serve ancora una sinistra per affrontare i problemi del Paese? Il liberté egalité fraternité, l’abolizione marxiana dello sfruttamento, una società multiculturale dei movimenti antirazzisti, la questione di genere del movimento femminista, la salvaguardia dell’ambiente dei movimenti ecologisti, la pace... insomma, tutti quei valori che costituiscono il patrimonio esistenziale della sinistra possono ancora “farsi politica”, incarnarsi in una  forza politica, in uno o più partiti o, come si spera ancora, in un nuovo soggetto politico “rosso”, papavero solitario in una valle di macerie? Oppure il tentativo di configurare una politica di sinistra oggi equivale più o meno a pestare l’acqua in un mortaio e, conseguentemente, per chi ne ha voglia, rimarrà solo l’impegno di volontariato nelle associazioni, nei comitati locali per i beni comuni, in quelli per il riciclo dei rifiuti o per una mobilità sostenibile, o in altre realtà ancora?
Intanto sarebbe opportuno capire, ad esempio, quale microdinamica sociale invisibile ha prodotto il macroscopico tsunami grillino, e quali forme di aggregazione sociale stanno nascendo, e come e perché sia mutata la natura del lavoro e dei lavoratori, e se sia possibile costruire una strategia di ricomposizione dei lavoratori in grado di contrastarne la frammentazione. E infine, quale rapporto persona-natura possiamo immaginare affinché si tenga conto del limite in cui siamo confinati: perché questa Terra, che non è un reservoir infinito di materie prime, di energia, di acqua, di suolo, è finita, non eterna, e chiede un disperato coraggio per raccoglierla sull’orlo del precipizio.
 

* Frate dell’Ordine dei servi di Maria

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