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Betlemme, dieci anni dopo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 10 del 15/03/2014

Se lo ricordano bene, gli abitanti di Betlemme, quel 1° marzo 2004. Si ricordano le camionette dell'esercito d’occupazione, con i blocchi di plastica alti un metro o poco più, che improvvisamente davano il via anche nella loro città all'incubo del muro. La “barriera di separazione”, il “muro di separazione”, la “barriera di sicurezza”, la “chiusura di sicurezza”, e infine il “muro della vergogna”, il “muro dell'Apartheid”: quanti nomi hanno dovuto apprendere da quel giorno, quanti distinguo intrisi di ipocrisia si sono celati in questi anni dietro quel gigante di cemento grigio, che ha stravolto le loro giornate, il loro movimento, spesso la loro stessa sopravvivenza.

Se lo ricordano bene quel giorno le suore del Baby Hospital, che da allora e ogni volta che è stato possibile hanno lanciato il loro appello accorato e oggi quasi sfinito: fatelo cadere, aiutateci ad abbatterlo con la denuncia, con l'azione nonviolenta, con la preghiera!

Oggi, dieci anni dopo, mentre a Betlemme e in molte città italiane si ricorda questa triste data pregando e riflettendo insieme agli amici di Un ponte per Betlemme promosso da Pax Christi, prendiamo in mano una cartina dell'Ocha (v. immagine grande a destra), l'ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell'Onu, e guardiamo lo scempio. E il disegno, dieci anni dopo, si fa chiaro: Har Homa, Gilo, Har Gilo, Betar Illit e tutto il blocco delle colonie di Gush Etzion si spalmano violacee e beffarde attorno alla città del pane, dell'accoglienza gratuita. Tutte attorno al muro, quasi a fargli da corona.

Solo una piccola linea cede ai contorni ormai delineati: un pezzettino ancora manca. È quello appena sopra Beit Jala, dove la resistenza nonviolenta, ultima di tante piccole azioni di protesta (ricordiamo nel 2010 quelle messe in atto dagli abitanti di Al Walajeh insieme ai tanti internazionali), sta se non altro impegnando non poco la corte di giustizia israeliana, grazie alla protesta delle 58 famiglie che non vogliono cedere le loro terre al muro. La valle di Cremisan infatti si trova tra gli insediamenti illegali di Gilo e Har Gilo. Il muro fornirà ad Israele più terra per espandere entrambe le colonie. Come sempre, in questi dieci, lunghissimi anni. E così, soprattutto, si andrebbe a chiudere... il semicerchio.

E allora ecco perché. Signori, ecco a voi i nuovi confini. Perchéla linea verde, la Green line del '49 è al di là di tutto questo. Ma il muro legittima di fatto, in questa terra dove ormai da troppo tempo i fatti contano molto più del diritto internazionale, l'annessione definitiva di queste colonie a Israele. E ancora una volta il discorso si sposta dal diritto alla sicurezza, che comunque non può avvenire sacrificando libertà e sicurezza altrui. E Betlemme, la piccola Betlemme, preziosa per attrarre turisti anche all'ente del turismo israeliano, incuneata dentro. Anche all'approssimarsi del Natale scorso, infatti, Israele ha cercato di rassicurare i turisti: il ministro del turismo di Israele, Uzi Landau, ha affermato: «Facciamo tutto il possibile affinché i cristiani possano visitare i luoghi sacri». Forse nessuno l'aveva avvisato che anche a Betlemme ci sono cristiani. E soprattutto che a Betlemme ci sono i suoi abitanti, cristiani o musulmani che siano, che vorrebbero tanto e ormai disperatamente veder riconosciuta anche la loro, di sicurezza, solamente in quanto individui: quella di poter domani muoversi liberamente, senza suddividere la giornata contando il tempo che occorre per aggirare i percorsi che il muro obbliga ciascuno di loro a fare per sopravvivergli.

Questi dieci anni sono stati duri per i betlemiti: lo confermano i tanti negozi sbarrati, i passi stanchi, gli sguardi sfiduciati delle persone che si aggirano per la città in questi giorni. The wall, the wall, dicono indicando il mostro. Non serve snocciolare i numeri delle persone che hanno perso il lavoro, la casa, la salute a causa del muro. Non serve elencare quanti adulti non sono riusciti a raggiungere in tempo gli ospedali “di là”, quanti bambini hanno ottenuto una corsia preferenziale per il cielo, in attesa che l'ambulanza arrivasse da “di là”, a prenderli in tempo. Non serve numerare gli alberi da frutta e gli ulivi abbattuti dall'esercito di occupazione, le terre confiscate, le case abbattute, i lacrimogeni e le pallottole lanciati in risposta alle pietre. Non serve misurare la lunghezza delle code dei betlemiti che ogni notte, permesso in mano e pronti a slacciare la cintura dei pantaloni, si sono messi in coda al checkpoint, divenuto ormai una sorta di “terminal” ipertecnologico e asettico, in attesa di andare a lavorare a giornata di là cioè, assurdamente, ancora in Palestina. Non importa ormai più “quanto” di tutto questo. Sappiate solo che tutto ciò è accaduto e sta accadendo.

* Pax Christi (bettatus@libero.it)

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