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Veneto indipendente?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 14 del 12/04/2014

Il “plebiscito ” online per l’indipendenza del Veneto ha fatto “boom” a livello mediatico e doppiamente: ha fatto notizia ed è “scoppiato”. La notizia è rimbalzata dall’estero, perché il voto online è coinciso con il referendum e i fatti di Crimea, tanto che qualcuno ha ironicamente pensato all’annessione del Veneto alla Russia. È “scoppiato” perché i dati pubblicati e il numero di partecipanti alla festa a Treviso per il risultato ottenuto hanno fatto rivedere le cifre e la portata dell’evento. Facendo due calcoli sul numero di elettori del Veneto, sulla dimestichezza della popolazione, specialmente di età medio alta, con internet e web, parlare di più di 2 milioni di voti è proprio un’esagerazione. E su questo continua la kermesse.

Tutti comunque concordano che, sebbene non ci siano e non si arrivi ai dati oggettivi, quanto avvenuto rimane l’espressione di una situazione di grave disagio della popolazione del Veneto sia rispetto a Roma che a Bruxelles.

C’è nella società veneta un risentimento nei confronti di Roma, sia per gli sperperi dello Stato, che per la condizione di minorità in cui si ritiene venga tenuto il Veneto rispetto al contributo versato per il mantenimento dello Stato e delle altre Regioni. Il Veneto si sente defraudato nell’economia, nella rappresentanza istituzionale e nell’immagine.

La motivazione dell’indipendenza non è propositiva; è soprattutto rivendicativa, proprio rispetto allo scarto che esiste tra il dato e il ricevuto. Il sistema Nordest, che ha avuto uno sviluppo grande e velocissimo, risente più di altri della crisi globale. Il fulcro culturale gira attorno al rischio che sta correndo il benessere conquistato. L’iniziativa del referendum viene a ridosso della protesta dei “forconi”. Il Veneto poi è confinante con Trentino e Friuli, due regioni autonome a statuto speciale. È evidente che il confronto pesa nella ricerca di una risposta veloce alla paura ingenerata dalla crisi. È più semplice trovare la causa del malessere altrove e risolvere la complessità dei problemi e delle interdipendenze ormai planetarie con semplificazioni illusorie e tutto sommato impossibili.

L’indipendenza veneta, dopo il fallimento della macroregione del Nord, rimane più una via di fuga che una prospettiva reale. La Lega era partita dalla secessione e aveva sbandierato il federalismo come strumento della sua espansione politica. Nei fatti ha partecipato come tutti alla gestione del potere a Roma come a Venezia con forte direzione centralista e lasciandosi tentare abbondantemente da una corruzione pervasiva e trasversale. Alla fine, ritengo che, a parte qualche gruppo ideologicamente convinto di essere in Scozia o in Catalogna, la maggioranza esprima un disagio e una protesa sulla classe politica, incapace di intercettare le legittime esigenze di autonomia per uno snellimento della burocrazia a livello locale, per favorire e non scoraggiare la partecipazione della popolazione nelle scelte di interesse collettivo, per vedere uno straccio di programmazione attenta ai grandi cambiamenti di questi ultimi anni specie sul piano ambientale. Così Roma è nemica, Venezia non fa la differenza politica e Bruxelles esiste solo per le sanzioni, per le inadempienze dell’Italia e per le vicende pesanti dell’euro.

Rimane comunque forte il rischio di una rivendicazione frustrante che può tradursi in ulteriore sfarinamento della società, con anacronistici atteggiamenti identitari di chiusura e di risentimento. Grecia, Spagna, Francia sono dietro l’angolo. La via dell’indipendenza nella pratica si dimostrerà del tutto anacronistica, perché non si può ricucire la storia istituzionale della Repubblica marinara di Venezia tagliando secoli di storia e con un’ottica esattamente contraria allo spirito che ha caratterizzato lo sviluppo di quella esperienza. Non ci sono istituzioni astratte, né astraibili dal loro contesto storico. Non siamo né dentro alla stessa storia (solo Padova oggi conta circa 120 etnie) né dentro allo stesso mondo. Altra è una indipendenza puramente formale, altra una sostanziale. Si crede di semplificare, invece si rischia di complicare ulteriormente la situazione, perché i problemi reali che stanno alla base della protesta non vengono nemmeno sfiorati. E sono i problemi di tutti, perché viviamo in un mondo globalizzato.

Costruire nuove burocrazie in nome della non burocrazia, puntare su nuove “piccole patrie”, realtà statali, polverizzando le istituzioni, in un mondo dove neanche gli Stati forti riescono a fronteggiare le grandi multinazionali dell’economia e della finanza, significa votarsi a una sudditanza peggiore di quella cui ci si vuole sottrarre. I soldi saranno una molla importante, ma da soli non possono reggere né una visione, né una istituzione totale. Il che non significa non prendere sul serio le problematiche gravi e specifiche del proprio territorio, assumendo le proprie responsabilità di cittadini attivi, e non significa neanche non pretendere risposte diverse dalla classe politica per il bene comune, ma significa farlo in un contesto di apertura e di condivisione con tutti gli altri della fatica grande di aprire futuro, in una convivenza globale, riconoscendo e realizzando i diritti di tutte le persone e della Terra.

* Prete di Vicenza, fondatore di "Beati i costruttori di pace"

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