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Le colpe del ricco Occidente

Tratto da: Adista Documenti n° 17 del 10/05/2014

Le tempeste che quest’anno hanno devastato alcune regioni del Regno Unito, provocando enormi danni alle case e ai terreni di centinaia di persone, hanno di nuovo sollevato la questione dell’impatto del cambiamento climatico e del livello di consapevolezza dell’opinione pubblica. Il tema è tornato alla ribalta con la pubblicazione del rapporto dei più importanti climatologi mondiali, che pone i nostri problemi locali all’interno di un contesto globale profondamente inquietante. 

L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il gruppo delle Nazioni Unite che riunisce gli scienziati impegnati in questo campo, mostra che, per quanto gravi possano essere stati qui gli eventi degli ultimi mesi, essi appaiono in realtà relativamente modesti in confronto ad altri. Sono coloro che vivono nelle Filippine sconvolte dal tifone o nel Malawi tormentato dalla siccità quelli obbligati non solo ad affrontarne le pesanti e prolungate conseguenze ma anche a introdurre cambiamenti fondamentali nel modo di vivere. 

Per anni abbiamo ascoltato previsioni sull’accelerato riscaldamento della Terra dovuto al consumo incontrollato di combustibili fossili e alla conseguente dispersione di anidride carbonica nell’atmosfera. Ciò che ora sta avvenendo indica chiaramente che tali previsioni si stanno avverando: le conseguenze delle nostre azioni costituiscono già una grave minaccia per molte comunità povere del mondo.

Le onde che hanno distrutto le linee ferroviarie nel sudovest del Paese e le piogge record che hanno allagato case e fatto tracimare il Severn e il Tamigi mostrano ciò che possiamo attenderci dall’aumento delle temperature a livello mondiale. L’innalzamento del livello dei mari provocato dallo scioglimento dei ghiacci accentua la gravità del fenomeno delle tempeste marine; l’aria più calda e più ricca di vapore porterà a un aumento delle piogge. Quanto accaduto in Gran Bretagna è stato uno shock per molti, ma per milioni di persone nel mondo non è una novità. Ed è un’ingiustizia particolarmente scandalosa il fatto che quanti subiscono le devastazioni maggiori – dai popoli dediti alla pastorizia nel nord del Kenya ai quilombolas del Brasile, discendenti di ex schiavi che vivono in territori desertificati a causa della deforestazione – siano proprio quelli che hanno meno responsabilità. 

Sono i Paesi ricchi e industrializzati come il nostro quelli che hanno contribuito in misura maggiore all’inquinamento atmosferico: lo sviluppo dell’industria pesante si è basato su quelle che ora consideriamo fonti energetiche “sporche” e ha comportato un degrado ambientale senza precedenti. Tanto il nostro attuale stile di vita quanto il modo in cui lo abbiamo raggiunto sono responsabili dell’attuale crisi ambientale. Ma non serve piangere sul latte versato. Il punto è che, come afferma James Hansen, già climatologo della Nasa, «i nostri antenati non erano consapevoli del fatto che le loro azioni avrebbero messo a repentaglio le generazioni future. Noi, invece, possiamo soltanto far finta di non sapere». La nuova mappatura scientifica sull’attuale caos climatico ci costringe a prendere atto che, se le nostre società e i nostri governi tarderanno a rispondere, una profonda ingiustizia verrà commessa ai danni dei poveri di oggi come della popolazione mondiale di domani.

Nel Regno Unito non prestiamo abbastanza ascolto all’esperienza di prima mano di quanti convivono con l’insicurezza climatica. Se è facile considerare gli allarmi degli scienziati come ennesime previsioni allarmistiche che potrebbero anche non avverarsi, diventa vitale ascoltare le voci di quanti la catastrofe la vivono già oggi. Un rapporto pubblicato da Christian Aid offre l’opportunità di ascoltare direttamente queste voci, presentando diversi esempi di come le comunità sono costrette ad adattarsi al cambiamento climatico. In Bangladesh l’aumento del livello del mare ha contribuito alla salinizzazione delle acque interne e alla perdita delle foreste di mangrovia che hanno storicamente fornito una protezione contro le tempeste. In Bolivia gli agricoltori che vivono sul ghiacciaio Illimani hanno dovuto combattere contro la carestia provocata dall’irregolare disgelo e molti sono stati costretti a emigrare.

C’è anche chi dubita del ruolo svolto dall’azione umana rispetto al cambiamento del clima, sostenendo che dovremmo rivolgere i nostri sforzi unicamente ad adattarci a cambiamenti ritenuti naturali e inevitabili piuttosto che a modificare i nostri comportamenti. Ciò potrebbe avere un senso per il Regno Unito, dove potremmo in qualche misura adattarci costruendo migliori difese contro le alluvioni. E certamente l’adattamento e l’adozione di comportamenti diversi non si escludono a vicenda. Ma queste opzioni non sono immediatamente accessibili alle comunità più vulnerabili del mondo. Per tali comunità, se adattarsi è fondamentale per salvare vite, garantire una vivibilità e assicurare gli investimenti, questo, tuttavia, da solo non basta.

Gli attuali esempi di cambiamento climatico sono il risultato di un aumento della temperatura globale di soli 0,8 gradi. Se, in mancanza di interventi sui livelli di inquinamento da combustibili fossili, le temperature aumenteranno da 2,5 a 5 gradi rispetto ai livelli preindustriali – aumento ritenuto possibile da molti scienziati – diverse misure di adattamento arriveranno semplicemente troppo tardi.

Pertanto, le comunità di cui parla Christian Aid chiedono che il mondo affronti alla radice, e subito, le cause del cambiamento. Un buon punto di partenza sarebbe il taglio dei 523 miliardi di dollari spesi in sussidi ai combustibili fossili (più di sei volte quello che viene investito nelle energie rinnovabili). In ogni caso, quanto emerge da tali rapporti è che si deve smettere di finanziare il degrado del pianeta, e che questa non è una faccenda che possa essere affrontata dopodomani. Il costo si paga ora, come tanti nel Regno Unito hanno scoperto ultimamente. 

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