Buona (Legge) Fortuna
Tratto da: Adista Notizie n° 18 del 17/05/2014
Gli italiani sono, storicamente, una popolazione civilmente arretrata, a maggioranza moderata per non dire conservatrice, poco propensa ad assumersi responsabilità, abituata a demandare la guida del Paese e propensa all’uomo forte al comando. Eppure nei momenti decisivi, i cittadini italiani, singolarmente, nel segreto dell’urna, hanno dato prova di essere un passo avanti rispetto alla propria classe dirigente.
Il referendum sul divorzio, di cui in questi giorni ricorre il 40° anniversario, è emblematico sotto questo aspetto. A un risultato di quelle dimensioni a favore del mantenimento della legge Fortuna non credeva praticamente nessuno: non le dirigenze dei maggiori partiti politici (Pci, per un verso, e Dc, per l’altro), impegnate a cercare un compromesso di basso profilo con le gerarchie ecclesiastiche, non la Chiesa (che con la rigidità della sua posizione pregiudiziale risultò la vera grande sconfitta di quell’evento), non gli intellettuali e neppure gli osservatori stranieri. Nonostante il popolo italiano avesse da pensare a problemi ben più impellenti – come la crisi economica, quella energetica, nonché drammatici eventi locali e internazionali come l’acuirsi della strategia della tensione, l’esplodere del terrorismo e la ridefinizione della politica statunitense in Europa e in Cile dopo il golpe – l’enorme partecipazione e soprattutto il risultato sembrarono indicare una grande volontà di cambiamento.
Furono i giornali stranieri a fotografare meglio il quadro italiano: «La vittoria più grande del cattolico italiano che ha osato sfidare la Chiesa» (Daily Mail); «Il credente non è più costretto a votare Dc» (Le Monde); «La vittoria postuma di Papa Giovanni» (L’Espress); «L’Italia non è più una nazione solamente cattolica» (Die Welt).
In effetti, al di là dei luoghi comuni e di alcune ricostruzioni storiche un po’ sbrigative, quel sorprendente risultato non fu la vittoria del laicismo, delle femministe e dei radicali, ma soprattutto il frutto dello spostamento di due milioni di voti cattolici rispetto alle precedenti elezioni (considerato il blocco Dc-Msi), in particolare nelle arretrate campagne, delle province meridionali e delle donne che avevano in gran parte respinto l’appello antidivorzista.
Apparentemente la campagna referendaria era stata furiosa, senza esclusione di colpi («pensa a tuo figlio», con il lupo “rosso” famelico che mangiava il bambino nei manifesti democristiani; «non contaminare il tuo voto con i fascisti di Almirante» rispondevano i comunisti; «contro gli amici delle Br vota sì» incalzavano i missini), ma non accadde – come ricordò ironicamente Sciascia – che i bambini, la notte del 13 maggio, credettero che il padre e la madre dovessero lasciare casa ed abbandonarli per sempre. In realtà, a ben guardare, le posizioni risultarono alquanto sfumate e non appiattite sul muro contro muro del sì o del no: tra i comunisti Berlinguer più titubante e Amendola più deciso; tra i socialisti Fortuna e Nenni più sicuri, De Martino e Lombardi più concilianti; tra i cattolici Moro e Andreotti più guardinghi, mentre Fanfani e la destra cattolica lanciavano la carica per ricostituire il blocco conservatore sanfedista e intransigente, scelta che si rivelò un’arma a doppio taglio. Nell’associazionismo cattolico la gioventù aclista si era pronunciata addirittura per il no, anche se poi, come le Acli, l’Ac e la Fuci, rientrò all’ovile; alcune riviste cattoliche, come Testimonianze di p. Balducci, le Comunità di Base, i Cristiani per il socialismo, un folto gruppo di intellettuali cattolici invitarono a votare contro l’abrogazione della legge. Perfino nella Chiesa ufficiale le posizioni furono più variagate di quanto si possa immaginare: basti ricordare mons. Pellegrino, la bozza correttiva di mons. Bartoletti, i distinguo di mons. Bettazzi…
Cosa rimane oggi di quell’Italia dell’impegno civile e delle risposte sorprendenti? Con una classe politica che evita di fare scelte progettuali di fondo sui nuovi diritti civili, nonché, più in generale, sulla politica economica e culturale del Paese, e con una Chiesa impegnata a ricostruire, faticosamente, la sua immagine partendo proprio “dal basso”, non resta che confidare in quella sorprendente e quasi inspiegabile spinta propulsiva della cittadinanza italiana, quasi un istinto civile di sopravvivenza, e augurarsi, reciprocamente, buona fortuna.
* Assegnista di Ricerca al Dipartimento di Studi Storici e Geografici di Firenze e autore, fra l’altro, di “Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Bruno Mondadori, 2007)
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