Teologia indigena e cristiana della terra
Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 01/07/2017
A partire dalla mia esperienza come indigeno e come sacerdote, posso affermare che per i popoli indigeni della Mesoamerica, come per i popoli della Bibbia, la relazione con Dio coinvolge necessariamente la terra da cui tutti deriviamo. Per i poveri di Yahweh, e particolarmente per i popoli originari, nulla e nessuno può essere inteso al di fuori di una relazione stretta con la terra, matrice, protezione e sostegno di ogni espressione di vita nel nostro piccolo territorio e nella nostra grande casa, il pianeta che abitiamo, che noi zapotecas chiamiamo guidxi-layú, cioè popolo-umanità intimamente connesso con la Terra come Madre e come Casa Comune.
Per questo, è necessario comprendere sia il pensiero biblico cristiano che quello indigeno relativo alla terra se si vuole assumere dall'uno e dall'altro la ricchezza spirituale necessaria alla lotta per trasformare in realtà “il cielo nuovo e la terra nuova” del Vangelo di Cristo, la “terra senza mali” o “terra del fiore” sognata dai nostri antenati, frutto del sumak kausay o vita in armonia tra di noi e con tutte le figlie e i figli della Madre Terra.
La terra nell'Antico Testamento
La Bibbia si apre con un'espressione efficace: «Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1), prima il cielo e poi la terra, secondo una prospettiva dell'origine della vita che parte dall'alto, cioè da Dio. Tuttavia, più avanti, l'ordine si inverte, con la segnalazione che «il Signore Dio fece la terra e il cielo» (Gn 2,4b), in base a un'interpretazione della vita che sorge dal basso, cioè dalla terra. In tutto lo sviluppo della storia della salvezza narrata nella Bibbia, la terra è un tema ricorrente non solo come scenario (luogo teologico) dell'azione divina e della collaborazione tra Dio e il popolo eletto, ma anche come contenuto (fatto teologico) delle promesse di Dio in risposta alle lotte di questo popolo.
Nell'Antico Testamento l'alleanza con Dio comporta il dono e la conquista di «un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,17). E il Popolo di Dio non può realizzarsi se non nella Terra Promessa. La Bibbia si chiude con il libro dell'Apocalisse e l'apparizione di «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1), come trionfo definitivo del progetto di vita di Dio che spazza via dalla terra ogni progetto di morte, oppressione e ingiustizia.
Nel piano divino la terra è fatta per essere feconda e produrre/generare gli altri esseri viventi (Gn 1,24). Ed è così per il suo legame profondo con Dio. L'essere umano è formato da Dio con adamah, terra feconda (Gn 2,7). Per questo il primo umano si chiama Adamo. È la sintesi di terra e cielo: perché è fatto di humus, o terra feconda, e ha ricevuto da Dio nelle sue narici l'alito di vita. Ed è chiamato a essere fecondo e a riempire la terra di vita (Gn 1,28). Ma, a causa del peccato, la terra è maledetta e diventa sterile e aggressiva nei confronti di suo figlio Adamo (Gn 3,17). A causa del peccato, il sangue versato dal giusto Abele grida a Dio dalla terra (Gn 4,10). Dal testo emerge che è la terra stessa a rivendicare giustizia per l'assassinio dei suoi figli. La grandezza e l'umiltà umana derivano dal fatto che dalla terra veniamo e a essa torneremo (Gn 3,19). È la terra che dà vita e identità a ogni porzione dell'umanità e a tutti i popoli nel loro insieme (Gv 10,32). Il patto con Abramo implica che Dio gli garantisca la discendenza e gli dia in eredità la terra (Gn 12,7). Stare sulla terra e vivere in pace è la maggiore benedizione di Dio (Sal 37,11).
Viceversa, l'esilio – l'essere strappati dalla terra – è il castigo peggiore: vivere in terra straniera (Sal 137,4). Di modo che, già dall'Antico Testamento, non c'é relazione vera con Dio né benedizione-salvezza dell'essere umano, se non si include la terra e se questa non è anch'essa benedetta e salvata.
La terra nel Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento Gesù inaugura l'anno di grazia collegando la sua nuova proposta al giubileo antico, come liberazione dei poveri e come riposo della terra e sua restituzione ai legittimi proprietari (Lc 4,18 ss; cfr. Is 61,7; Lev 25,8s). Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare perché sia fatta la volontà di Dio come in cielo così in terra (Mt 6,10). E fa ricorso a elementi della terra – facendo del fango con la saliva – per curare le malattie del popolo (Gv 9,6). La terra è una risorsa pedagogica assai presente nelle prediche e nelle parabole di Gesù (cfr. Lc 8,5-8; Mc 4,1-9). Come è la terra a dare maggiore o minore fecondità al seme, così è il cuore umano a rendere feconda la Parola di Dio, se è preparato, aperto e pronto ad accogliere la proposta del Regno proclamato da Gesù (cfr. Lc 8,11-15). Dall'inizio alla fine, la terra occupa uno spazio molto ampio nel suo pensiero, nelle sue parole e nelle sue azioni. La terra è ragione d'essere della sua identità culturale e religiosa; è una risorsa pedagogica costante per i suoi insegnamenti; e allo stesso tempo è un contenuto di fondo della sua proposta di vita in abbondanza: Gesù propone una salvezza che si fa realtà sulla terra e con la terra rinnovata e condotta alla sua piena realizzazione nel Regno di Dio. Egli è colui che ha riconciliato tutte le cose del cielo e della terra (Col 1,20), ricapitolando tutto in sé (Ef 1,10). In virtù della sua incarnazione e della sua resurrezione, Egli è il primogenito di tutta la Creazione (Col 1,15; Ap 1,5). Attraverso di Lui la terra soffre dolori di parto finché non si manifesterà in essa l'Essere Umano Perfetto (Rm 8,22). Il culmine dell'opera redentrice di Cristo sono i “cieli nuovi e la terra nueva” (Ap 21,1) che giungeranno alla fine dei tempi.
L'influenza del pensiero grecoromano sulla Chiesa
Dopo i primi due secoli di cristianesimo, la filosofia greca – specialmente nel suo versante manicheo – introdusse nella Chiesa l'opposizione irriconciliabile tra cielo e terra, spirito e materia, Dio e mondo, promuovendo una spiritualità centrata sull'aspirazione ai beni del cielo, non a quelli della terra. Una prospettiva, questa, in cui la terra non fa più parte del Piano di Dio. Nasce così una catechesi segnata dal disinteresse per la terra, mentre i potenti si appropriano di essa, delle sue risorse e del lavoro dei contadini. La terra inizia allora a essere vista come una valle di lacrime, come un luogo di passaggio verso il cielo o come una prigione da cui liberarsi per raggiungere la perfezione. Da allora la terra viene vista come nemica del cielo e della perfezione cristiana, che bisogna perseguire al di là di questa realtà, praticamente contro il corpo e fuori dalla storia. Un modo di intendere la relazione con la terra che poi, come ha evidenziato ampiamente papa Francesco nella Laudato si’, sarebbe stato usato a favore di modelli di società impegnati a depredare e a distruggere la base materiale della vita sulla terra.
La terra nella spiritualità indigena
Nell'esperienza teologica indigena dei popoli del mais, la terra occupa un luogo centrale e insostituibile. Ogni vita viene dalla tierra, che è il maggiore segno visibile o sacramento di Dio, chiamato Ipalnemohuani, Colui/Colei per il/la quale viviamo, e che ci dona costantemente la vita. Nei miti delle culture del mais, Cipactli – definito da alcuni studiosi come il “Mostro della Terra” – è l'energia vitale originaria, rappresentata come un animale informe (serpente, caimano, squalo, tartaruga, giaguaro) che è stato sacrificato per dare vita a tutta la creazione, la quale, pertanto, continua ad apparire come un essere vivo che ci vivifica. La vegetazione è la sua pelle o il suo vestito, nei suoi monti c'è il suo ventre, i fiumi sono i suoi capelli; tutte le sue parti sono come braccia che ci accarezzano e ci proteggono, perché tutti noi viventi siamo sue figlie e suoi figli. La fraternità come ideale ancestrale dei popoli indigeni – non solo della Mesoamerica ma dell’intero continente – deriva dal fatto che siamo tutti parenti, in quanto veniamo dalla stessa madre, che è la Terra. Di conseguenza, noi umani non siamo al di sopra di questo insieme organizzato di vita, ma condividiamo il nostro essere con le pietre, le piante e gli animali.
Per questo, per i nostri popoli, è così importante conoscere e rispettare il nostro nagual (lo spirito buono, simile a un angelo guardiano, che si manifesta sotto la forma di un animale, ndt), che è nostro compagno di vita nella natura. Tutto quello che succede a me succede a lui e viceversa, perché siamo totalmente interdipendenti. Vivere questa armonia non è facile, perché comporta atteggiamenti mistici e pratiche ascetiche nella relazione con gli altri esseri della creazione. Non a caso, secondo i maya, vi furono altri tentativi di creazione dell'umanità, caratterizzati dal diverso materiale, preso dalla terra, impiegato per darle vita, come il legno, il fango, la pietra (cfr Popol Vuh). Tutti fallirono a causa della mancanza di solidità, di capacità di movimento e, soprattutto, di coscienza e sentimenti verso gli altri esseri. Solo le donne e gli uomini creati dal mais hanno resistito fino ai nostri giorni, come veri interlocutori di Dio, quelli che lo riconoscono, gli rendono lode e collaborano con lui per mantenere l'armonia della vita sulla terra. La cosiddetta croce cosmica o "croce maya" rappresenta l'ideale dell'armonia tra tutto ciò che esiste. Noi umani siamo coloro che custodiscono e ricostruiscono questa armonia.
Per i maya e per gli altri mesoamericani, Dio è il cuore del cielo e il cuore della terra, rappresentato nell'atto di caricare il cielo sulla terra per formare così la nostra casa che è il mondo. Noi umani siamo stati creati da Dio per collaborare con lui a questa impresa. Dio, infatti, non vuole guidare da solo la creazione al suo vertice né mantenere da solo l'armonia della vita: noi umani siamo stati creati per collaborare con lui a tale compito. È quanto spiega il mito secondo cui Dio risolse il caos della caduta del cielo sulla terra, creando l'umanità affinché insieme a lui disponesse l'universo così come è adesso, rendendoci simili a uccelli che volano tra il cielo e la terra. Per l'indigeno mesoamericano, la terra non ci appartiene; siamo noi, piuttosto, ad appartenere a essa. Viviamo grazie ad essa, cresciamo su di essa, troviamo in essa la fine. Perché siamo la sua famiglia insieme agli altri esseri della creazione. La terra non si può vendere perché non è una merce, ma è parte costitutiva di noi stessi. E i fratelli indigeni del Nordamerica condividono con noi questi ideali, come ha spiegato chiaramente Capo Seattle al presidente degli Stati Uniti che voleva comprare il suo territorio. Seminare la terra non è propriamente un lavoro, ma una relazione o una collaborazione amorevole perché la terra ci dia l'alimento, come fa una madre.
Per questo, seminare è un atto sacro (liturgico) che esige per prima cosa la richiesta di permesso e poi la richiesta di perdono; è fare sacrifici e prestare collaborazione alla terra mantenendo la reciprocità, giacché, se essa soffre per produrre il mais, anche noi dobbiamo soffrire per essa rispettandola, curandola e difendendola contro ogni aggressione. Il cielo indigeno, la nostra utopia, è xochitlalpan, la terra del fiore, che è la vera terra, ossia il luogo della saggezza, della bellezza, dell'armonia. È anche tonacatlalpan, la terra della nostra carne e del nostro sostentamento, cioè il luogo dell'abbondanza, del benessere, del diritto alla vita per tutti i figli della terra. Per questo cerchiamo di costruire questa utopia a partire dal qui e ora, attraverso la vera fraternità, attraverso la difesa della comunità. Per questo, in alcune regioni del continente, questa utopia è chiamata “terra senza mali” (guaraní).
Difendere la terra nel contesto attuale
La prospettiva capitalista imperante, che guarda alla terra solo come un mezzo di produzione, e che per questo la sfrutta degradandola con tecnologie dannose, si contrappone alla prospettiva indigena e anche a quella cristiana, schierandosi contro la vita. La quale è possibile solo se rispettiamo la Madre Terra e collaboriamo con essa. Noi abbiamo bisogno della terra ed essa ha bisogno di noi. E ha diritti che devono essere riconosciuti e rispettati da tutte e tutti. Recuperare una relazione armoniosa con la terra e con tutte le sue figlie e i suoi figli è una condizione indispensabile per superare la crisi attuale. La sobrietà indigena nell'uso e nel consumo dei beni della terra risulta l'unico cammino in grado di invertire il processo di saccheggio e di contaminazione a cui è stato sottoposto il pianeta a causa dello sfruttamento irrazionale, dell'ansia di possesso e del consumo vorace dei beni della creazione, concentrati in pochissime mani. Anche in questo aspetto noi indigeni offriamo, nei miti e nella sapienza ancestrale dei nostri popoli, semi di un mondo nuovo e giusto, in cui sia possibile una vita in pace e in armonia (sumak kausay o suma kamaña), e in cui l'ideale di Cristo possa tradursi in realtà: «Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Secondo gli indigeni zapotecas, gli umani sono yú (polvere), come gli altri esseri della creazione, vivono in layú (terra, territorio) come fosse la propria casa comunitaria e hanno il dovere di trasformarla in guidxi-layú, cioè in un pianeta come degna casa dell'umanità intera.
Alcune conclusioni
Dobbiamo domandarci se non sia troppo tardi per concretizzare le grandi visioni dell'ecoteologia indigena e cristiana, considerando quanto la dinamica predatoria imperante nella società sia così potente da rendere praticamente impossibile il tentativo di metterle un freno e di mutare la direzione degli avvenimenti. Gli stessi popoli indigeni, inoltre, dopo più di mezzo secolo di oppressione e discriminazione, stanno registrando un indebolimento delle pratiche di vita comunitaria in armonia con la natura, facendosi contagiare dalle illusioni consumiste e in tal modo dimenticando i loro grandi miti e le loro utopie fondanti. E lo stesso avviene con le comunità cristiane a causa delle incongruenze e delle controtestimonianze che ci allontanano dalla lotta per il grande sogno del Regno di Dio per cui è morto il nostro fratello Gesù, di modo che la nostra parola è vista come una cosa del passato e non come un solido punto di riferimento per costruire il futuro che vogliamo. Se i fatti dimostrano che tutto ciò è vero, è proprio questa crisi profonda, secondo papa Francesco, a spingerci a fare appello alle migliori energie umane e teologiche per condurre il mondo fuori da questa fossa in cui lo abbiamo fatto cadere e in cui siamo caduti. I cristiani, i poveri e specialmente gli indigeni possono contribuire con le loro migliori risorse, che non sono date da oro e argento, ma dalla forza della nostra fede e della nostra speranza nella Resurrezione, che vediamo realizzata in Colui che non è stato vinto dal progetto del male e ora vive eternamente alla destra del Padre. E se lui ha vinto la morte, anche noi lo faremo con la forza e il potere dello Spirito.
* Eleazar López Hernández, sacerdote messicano di etnia zapoteca, lavora nel Centro nazionale di aiuto alle missioni indigene (CENAMI) ed è uno dei massimi esponenti della teologia india latinoamericana. Tra le sue pubblicazioni, Teología India. Antología, Ed. Guadalupe y Verbo Divino, Cochabamba, 2000.
* Immagine per gentile concessione dell'autore
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